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Come Nicolai Lilin ha risolto i suoi problemi economici

Dicono tutti che in momenti di crisi bisogna inventarsi qualcosa. Qualcuno ha anche detto che la cosa migliore è continuare a fare ciò in cui si riesce meglio. In cosa riesca meglio il giovane scrittore Nicolai Lilin, originario della Transnistria, non saprei dirlo, ma sicuramente bisogna dargli atto di essersi inventato qualcosa.

Nato e cresciuto in una comunità di Siberiani trapiantati coattivamente in Transnistria durante il regime sovietico, Lilin racconta di essere stato educato secondo la tradizione degli Urka. In questa comunità di “criminali onesti”, in cui la violenza s’intreccia con la religione ortodossa ed una saggezza di altri tempi, regna una filosofia che nasce dal contatto con la dura e spesso ostile verità della vita (viene trasmessa dagli anziani). Uno dei suoi nonni, in particolare, una specie di saggio della tribù, l’avrebbe guidato attraverso i pericoli della modernità e dei percorsi sbagliati come quello di “Seme Nero” una comunità più ampia e potente, ma, ci viene detto chiaramente, inferiore ed in qualche modo timorosa di quella siberiana.

Gli Urka sarebbero portatori un po’ degli stessi attributi che, anche se in maniera diversa e forse più corrotta dal contesto (la guerra Cecena), incarneranno poi i sabotatori guidati dal capitano Nosov in Caduta Libera (il secondo libro di Lilin): forza, lucidità, spietatezza/umanità, ma soprattutto una certa purezza data da un’accettazione e da un’ipertrofica consapevolezza della natura umana irreggimentata dalle strutture militari (corrotte e menefreghiste nella loro volontà politica, ma unico fondamento sano nel caos della battaglia). Si parte dalla compassione fino ad arrivare ad una bestialità quasi primitiva, passando per la necessaria freddezza del guerriero (e chi meglio di un cecchino, Lilin nel libro, può descrivere tutto questo, osservando il mondo dal suo mirino).

Recentemente Salvatores ha finito di girare un film dedicato al primo capitolo della saga di Lilin. Per quel che si può giudicare dal trailer, che è spesso ingannevole, il film sembra fatto molto bene. Lo stile è diverso da quello che portò il regista napoletano a vincere l’Oscar con Mediterraneo. La Hollywood del cinema d’azione ben confezionato sembrerebbe farla da padrone anche nella scelta del cast internazionale, comunque di tutto rispetto, che vede John Malkovich nei panni del nonno del protagonista.

Guardando le poche immagini che circolano in rete mi ha colpito una scena, che non ricordo se fosse presente nel libro, probabilmente si, in cui viene spiegato al piccolo Lilin l’odio per i poliziotti, i banchieri e gli usurai.

Quando ho letto Educazione Siberiana  non ho avuto nessun dubbio che si trattasse di una finzione. L’ho trovato un libro “simpatico” se giudicato col metro con cui valuto tutte le produzioni del cinema americano che guardo essenzialmente per abitudine, per passare qualche oretta con il cervello spento, lontano dai problemi reali. Ho anche pensato che lo stratagemma della presunta autobiografia fosse perdonabile se inquadrato come espediente commerciale alla Blair Witch Project (in cui, dopo dieci minuti dall’uscita del film, non crede più nessuno). Faccio il paragone con il cinema americano perché è lì che, a mio avviso, i libri di Lilin affondano le radici (e nella Play Station). Quando mi sono accorto però che se ne discuteva seriamente mi sono messo le mani nei capelli. E così, navigando in rete, sento parlare del valore della tradizione, di lingua dei tatuaggi (non che non sia esistita veramente) quasi si volesse fare una semiotica del valore, della virilità, del pantheon della cultura criminale. Ma quello che mi ha scioccato per davvero è stato apprendere che Roberto Saviano abbia parlato di Lilin e del suo libro, che secondo me non ha letto, in termini più che lusinghieri. Mi ha scioccato anche sapere che Lilin scriva per L’Espresso in cui racconta, ad esempio, le sue esperienze come Contractor. Detto chiaramente non credo ad una parola di ciò che scrive.

Pochi, da quello che ho visto, i quantomai opportuni tentativi demistificatori. Il più importante forse è stato fatto da un giornalista de La Stampa che, alla ricerca del passato di Lilin, si è imbattuto in alcune dissonanze (molte per la verità, praticamente un’altra vita). Poi c’è stata anche una puntata dello show di Chiambretti dove Lilin, presente sul palco, è stato messo alle strette.

Come ho sempre pensato che agli adolescenti che osannano i banditi fighetti di Romanzo Criminale, libro, film (con Kim Rossi Stuart e Scamarcio) e serie televisiva, bisognerebbe far parlare con chi da quegli anni è stato toccato sul serio, credo che ai giovani che osannano il “mondo della tradizione” di Nicolai Lilin vadano spiegate meglio certe cose.

Mi è stato detto che almeno con Romanzo Criminale gli adolescenti hanno conosciuto una pagina importante della storia del nostro paese. Beh, penso che se la storia debba essere raccontata con tanta superficialità allora forse è meglio che non la conoscano. Il film di Salvatores non è ancora uscito ma, al di là della veridicità del contenuto, se il concetto è sempre quello di far leva sull’ansia di auto affermazione adolescenziale, sul desiderio di forza e purezza, di trasgressione, mischiando il tutto al protagonismo/divismo contemporanei, allora spero che il film vada male (ne dubito in realtà). Meglio l’identificazione con i personaggi dell’Hobbit allora, nelle sale in questi giorni, i quali rimandano a valori più assoluti (nel senso di senza tempo).

Cambierebbe qualcosa se fosse dimostrato che quando Lilin, fra una partita e l’altra a Call Of Duty, ha inventato i suoi libri stava pensando proprio a come sedurre certa gioventù anziché fare quello che dovrebbe fare ogni scrittore degno di questo nome (cioè andare alla ricerca del vero)? I valori dei giovani sono importanti e meriterebbero, qualunque essi siano, un’indagine molto più rispettosa. Chi ha letto Il biglietto stellato di Vasilij Aksenov? Quello si che è un romanzo di formazione veramente eversivo che peraltro contribuì all’espulsione dell’autore dall’Unione Sovietica.

La questione della banalizzazione dei contenuti nella nostra società (anche e soprattutto attraverso la forma) è un problema grandissimo a cui non sarà facile dare una risposta. Da lettore e spettatore aspetto con ansia che, fra le nuove generazioni, qualcuno inizi a provarci (in questo senso mi è piaciuto molto Reality di Garrone). Ad ogni modo consiglio a tutti i giovani che hanno trovato nei libri di Lilin l’eco di una visione della vita più autentica e vera, di cercare nella nostra meravigliosa tradizione letteraria perché vi troveranno sicuramente risposte più degne di loro.

 

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