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Gli abissi della fede nella “Vita di Pi”

Un tuffo obbligato, ci piaccia o no, negli abissi profondi, incomprensibili della fede. Una sensazione in bilico fra l’ineffabilità di una favola e la cruda semplicità di un sentimento sincero. Ang Lee nel suo ultimo lavoro tasta con delicatezza lati dell’anima umana fra loro lontani, che risultano essere, a film terminato, inspiegabilmente inscindibili.

Un’intervista tra uno scrittore americano in cerca d’ispirazione e un indiano sulla cinquantina fa da gradino d’ingresso al cuore magico del film, la vita di Pi. I presupposti del film all’inizio sono tutt’altro che magici, Pi è un bambino indiano, che vive all’insegna della spiritualità la sua esistenza, sperimentando diverse religioni e scontrandosi con la razionalità quasi occidentalizzante del padre, e col buon senso materno.

Quello che Pi rappresenta, però, non è un fervore religioso. Pi, (come Pi greco), incarna la fede come curiosità, e il suo viaggio il percorso di chi, oltre a farsi delle domande, cerca anche delle risposte. Con una dolcezza e una forza che, invece di scadere nel melenso, esaltano la sincerità dell’essere umano Pi, avvicinandocelo paurosamente.

Ang, non contento di aver sperimentato ogni genere cinematografico, dal melodramma ai supereroi, si imbarca in questa nuova sfida, creando qualcosa che evade dalle categorie di genere. Il romanzo di Yann Martel viene magistralmente reso e descritto dal regista con un’estetica fluida, fatta di fili che il regista tende e interseca tra loro, il cielo si confonde col mare mentre il nostro sguardo incontra quello di una tigre, Richard Parker, nel quale possiamo catturare la profondità delle paure e delle speranze che noi stessi condividiamo coi personaggi, intrappolati in questo continuo gioco di riflessi tematici ed estetici in cui Lee ci rinchiude. Inutile tentare di guardare ‘’Vita di Pi’’ da una sola angolazione. Non vuole essere solamente un film d’avventura né tantomeno fantastico. La forza del film sta infatti nell’accostare ad un’estetica favoleggiante, aiutata dall’uso, in questo caso sapiente, del 3D, temi universalmente semplici.

Il racconto di un viaggio che prima o poi tutti compiono. Per questo l’ultimo lavoro di Ang Lee può quasi essere considerato alla stregua di un poema corale del nostro mondo, perché né racchiude e né concretizza le necessità e le paure: il bisogno di mettere in discussione la fede e i dogmi che la società ci impone come certezze, in nome di una sincerità per la quale vale la pena soffrire. “Vita di Pi’’ non è solo un grande sogno immaginario, è un racconto sul coraggio di cercare delle risposte, in un’epoca in cui possiamo sapere qualsiasi cosa, restando sempre all’oscuro.

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