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La politica industriale non è una bestemmia

Da dove ripartire dunque se non dalla storia, quella nostra, degasperiana, che ci fa essere europeisti convinti e sussidiari? La costruzione degli “Stati Uniti d’Europa” è l’unica via per superare la crisi economica, che un atto di solidarietà tra popoli che hanno una storia comune e che decidono di avere un futuro comune vale di più di mille manovre economiche.

Il progetto di costruzione europea, avviato dopo la fine della seconda guerra mondiale, ha portato enormi vantaggi consentendo di riunificare ciò che era diviso ed assicurando in Europa un lungo periodo di pace. A noi oggi il compito di concludere quel processo andando decisi verso una vera unione politica e fiscale che, sia chiaro, ci deve vedere disponibili ad una effettiva cessione di sovranità politica ed economica che sia equa e bilanciata.

La nostra bussola è l’economia sociale di mercato: da troppo tempo all’industria, alla produzione di beni e di servizi, alla creazione di ricchezza si è sostituita una concezione speculativa del mercato. Prodotti finanziari tossici e inquinanti hanno alterato le regole del gioco. Si è perso il senso delle dimensioni: non credo che possa essere additato a modello un sistema economico che consente a manager di grandi aziende di guadagnare come 2-300 operai, né può essere più tollerato che banchieri e uomini d’affari si spartiscano stock options miliardarie mentre le loro aziende scaricano sulla collettività il costo dei loro fallimenti.

È corretto invece occuparsi di politica industriale. Le tante crisi aziendali con le gravi ricadute sull’occupazione che sappiamo hanno fatto tornare in auge un dibattito che sembrava archiviato. Anche qui si tratta di essere conseguenti con quel principio di sussidiarietà che dovrebbe muovere le nostre decisioni. Lo Stato non può sostituirsi al mercato ma neppure il contrario. Quello che la politica, il governo, può fare è determinare le condizioni più favorevoli per cui il sistema economico possa svilupparsi.

Serve una visione e questa non può essere sganciata dal progetto di Europa 2020 e di Europa 2050. Innovazione e sostenibilità sono le parole chiave del futuro prossimo ed è lì che dobbiamo convogliare i nostri sforzi. Certo, dobbiamo sfruttare al massimo le risorse comunitarie che troppo spesso disperdiamo per incapacità che andrebbero sanzionate con maggiore rigore. Il punto però non è sussidiare oggi un settore industriale o un altro domani: lo Stato deve intervenire sulla scuola, sulla ricerca, sul trasferimento tecnologico. Su una cultura cioè che non veda nell’impresa un male e che anzi valorizzi l’alleanza virtuosa fra economia e conoscenza. L’economia sociale di mercato deve essere competitiva e non assistenziale. Qui sta una differenza cruciale con i retaggi berlusconiani che riducono tutto alla capacità salvifica del solo e libero mercato e quelli del Pd che tendono a descrivere la competizione come fattore di inequità.

Estratto dall’introduzione di Pier Ferdinando Casini al libro “Quale strategia per il centro” di Francesco D’Onofrio (Marsilio)

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