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Un sexless Macbeth e la sua lady

La ‘stagione’ 2013 del Teatro Comunale di Bologna apre in ritardo rispetto a quelle di altre fondazioni liriche a ragione degli impegni di Robert Wilson con un nuovo allestimento di Macbeth di Giuseppe Verdi. La direzione musicale è di Roberto Abbado mentre gli interpreti principali sono Dario Solari, Tatiana Serjan, Roberto De Biasio, Gabriele Mangione.
Pur se si tratta di un’opera giovanile (Verdi non aveva trent’anni quando il lavoro debuttò, al pari di Simon Boccanegra e Don Carlo), è un lavoro che il compositore amava moltissimo tanto che, nell’arco di quasi tre decenni, ne compose tre differenti edizioni, molto differenti tra loro. E’ anche una delle opere più ‘gettonate’ nell’anno in cui si celebra il bicentenario. In effetti, i Macbeth verdiani sono tre oppure quattro se si conta il mixage realizzato da Riccardo Muti della seconda e della terza versione per Salisburgo e Roma. Nel 1847 Macbeth ebbe la prima mondiale al Teatro La Pergola di Firenze; nel 1865, fortemente rimaneggiato, venne presentato al Théâtre Lyrique di Parigi; venne aggiornato di nuovo per La Scala nel 1874. Il primo è di stampo donizettiano. Il secondo in omaggio al gusto francese includeva lunghi ballalibili. Il terzo rispecchia il cambiamento di stile di Verdi, dopo Aida ed anticipa Otello.

A Bologna si vedrà ed ascolterà ‘la versione di riferimento’, ossia quella del 1865 in traduzione ritmica italiana e senza ballabili. Nel corso dell’Ottocento, l’opera venne anche vista con occhi differenti dal pubblico. Dopo il 1850, puntando sul coro con cui inizia il quarto atto Oh, Patria Oppressa degli scozzesi esuli in Inghilterra si tenne a dare un tono ‘risorgimentale’ , nonostante l’opera fosse stata commissionata dal Granducato di Toscana e rilanciata nel Secondo Impero francese. Nel Novecento, si è posto l’accento sulla sete di potere: il lavoro ha anche ispirato film come Il Trono di Sangue di Kurosawa.

A mio avviso, pure se la brama di potere è importante in Macbeth (tanto in Shakespeare quanto in Verdi), non è l’aspetto centrale. Le opera di Verdi sul potere sarebbero giunte più tardi: Boccanegra, Don Carlo, Aida. Nel 1847, Verdi era torturato da un dramma più profondo: avere perso i due figli in culla e sapere di non potere averne più. Lo mostra a tutto tondo la scena in cui vede la discendenza (senza suoi figli), la scena del sonnambulismo e pazzia della Lady e tra i due senza ombra di attrazione carnale. In Shakespeare, la Lady chiede di diventare “sexless, remorseless and resolute”. Nella tragedia shakespeariana, Macbeth e la Lady compiono l’estremo sacrificio – non avere figli, anzi essere asessuati (Lady Macbeth invoca “unsex me”) – pur di arrivare al potere assoluto. Nel libretto di Piave e soprattutto nella musica di Verdi, questo tema resta nel “Di figli è privo” scandito in tono robusto da Macduff. Il buon Francesco Maria Piave non riuscì a verseggiare e molto di più ed il pubblico perbenista italiano e francese dell’Ottocento avrebbe avuto difficoltà a comprendere. Anche proprio in quel periodo Wagner stava lavorando ad una tetralogia in cui il nano nero Alberico rinuncia ad amore e sesso per avere l’oro che dà il potere assoluto.

In questa chiave, il vero centro del lavoro è una patologia che porta all’ossessione per un potere (che non si può tramandare) proprio a ragione del rapporto asessuato tra Macbeth e la sua Lady. E’ una lettura moderna ma corretta. L’ho visto in regie di Nekrosius (del 2002) e di Brockaus (della fine degli Anni Novanta, ma ripresa di recente a Jesi, Genova e Trieste). Vedremo in che misura la colgono le geografie simmetriche di Bob Wilson.

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