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Tre lezioni utili dal caso Mps per politica, fondazioni e banchieri

Ha ragione Visco (Ignazio) governatore della Banca d’Italia: va interrotto il rapporto “incestuoso” tra le fondazioni e le banche. Ha ragione Visco (Vincenzo), ex ministro del Tesoro e delle Finanze, uno dei cervelli più lucidi del Pd: è ora di separare la banca commerciale dalle attività di trading. Sono le due ricadute sistemiche dello scandalo Montepaschi. Entrambe difficili da affrontare. La prima è un problema nazionale, anche se proprio per questo motivo, ancor più complicato. La seconda è internazionale e ha già trovato potenti forze contrarie a Wall Street, nella City, ma anche a Parigi e Francoforte, cioè là dove l’industria finanziaria ha conquistato l’egemonia sugli altri rami dell’attività produttiva. Ma andiamo con ordine.

LE FONDAZIONI. Nell’anomalia italiana c’era un’anomalia senese, su questo ha pienamente ragione Giuseppe Guzzetti che delle fondazioni è lo stratega. Siena è l’unica ad aver rifiutato di scendere sotto il 50% nella banca Montepaschi, violando le direttive della legge Ciampi. La stessa arroganza localistica ha impedito il matrimonio tra Mps, Bnl, Bbva nel 2002 e ha trasformato Visco (Vincenzo) nel nemico pubblico numero uno perché aveva osato nel 2000, quando era al Tesoro, far passare una norma sulla incompatibilità tra fondazione e banca. Bene, ma l’incesto al quale si riferisce la Banca d’Italia va ben oltre piazza del Campo e riguarda l’intero sistema italiano a cominciare dalle due banche maggiori: Unicredit e Intesa: entrambe, infatti, hanno le fondazioni come azioniste di riferimento. “Far uscire la politica”, o meglio i partiti, è una condizione necessaria, ma non sufficiente. Gli “ircocervi” come li chiamò Giuliano Amato che li aveva inventati, hanno fatto il loro tempo.

Chi farà la storia degli anni ’90 e delle privatizzazioni si chiederà se c’erano alternative. Non esisteva un mercato dei capitali che potesse consentire la trasformazione delle banche di Stato in public companies, né imprenditori privati in grado di fare i banchieri in piena autonomia (cioè senza asservire la banca a interessi di parte o magari della propria casa madre). E’ vero. E questo mercato in Italia non c’è nemmeno adesso. Ma oggi viviamo in un mondo diverso e in un’area a moneta unica. Il problema, dunque, va affrontato al di là dei confini nazionali. E’ questo che intende Bankitalia e va aiutata dal governo (il prossimo ormai) e dai banchieri seri.

IL MESTIERE DI BANCHIERE. Due attività diverse che in apparenza sono complementari (i guadagni del trading possono compensare le perdite nell’attività creditizia e viceversa) sono entrate in contraddizione. E ne ha fatto le spese il credito. La crisi del 2008 è scoppiata nel ramo banca d’affari, ma a rimetterci sono stati i prestiti alle famiglie; hanno rischiato l’osso del collo i risparmiatori, tanto che i governi hanno dovuto subito rimediare aumentando la copertura dei depositi (o introducendola se non c’era), salvando le banche, addirittura nazionalizzandole. Lehman Brothers è saltata, i suoi manager e dipendenti hanno fatto le valigie, tutte le altre sono state assistite dai contribuenti. La stessa storia si ripete su scala minore a Siena.

Non solo. Dal 2010 in poi le grandi banche americane o europee sono tornate a fare utili scambiando titoli e soprattutto speculando sui debiti sovrani (vedi il caso della Deutsche Bank). Ma non hanno utilizzato i profitti per allentare la stretta del credito. Si sono fatte finanziare dalle banche centrali a tasso reale negativo e nemmeno in questo caso hanno aperto i rubinetti. Ci sono attenuanti per le banche dei paesi deboli (Spagna e Italia) appesantite dai titoli di stato (comperati anche in seguito alla moral suasion dei governi) o da crediti in sofferenza vista la durissima recessione che stanno attraversando. Non esistono scuse in tutti gli altri casi.

Dunque, il meccanismo non funziona. Lo ha detto per primo l’ex governatore della Federal Reserve Paul Volcker, tuttavia la riforma che porta il suo nome è modesta e inapplicata. In Europa si sta discutendo il rapporto Liikanen, però i governi francese e tedesco sono contrari. L’interesse del sistema finanziario italiano è che si introducano di nuovo paratie stagne tra le due attività, la banca deve ruotare attorno al finanziamento delle attività reali perché siamo il secondo paese manifatturiero d’Europa e dobbiamo restarlo. Il governo italiano deve battersi a Bruxelles. Ma intanto le stesse banche si muovono. Federico Ghizzoni sta cercando di ristrutturare Unicredit in questo senso. Ci sono anche esperienze importanti all’estero: in Svezia, ammaestrata dalla grande crisi degli anni ’90 o nella stessa Germania. Ciò libererebbe risorse per tutti, anche per chi vuol fare finanza, un’attività essenziale che non va demonizzata, ma un altro mestiere con altri profili di rischio e livelli di capitale. Sarebbe una riforma di mercato a favore di un vero mercato dove soggetti diversi svolgono funzioni diverse.

Stefano Cingolani

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