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Solo una Bretton Woods può evitare che dollaro e yuan stritolino l’euro

Nel mondo persiste un eccesso di strumenti monetari e finanziari rispetto al Pil mondiale ed essi rendono mediamente meno dell’inflazione. In termini tecnici il tasso dell’interesse reale è negativo. I possessori di finanza guadagnano solo se speculano, ossia acquistano e vendono lucrando le differenze. Il caso della finanza “derivata” da quella principale è ancora più complicato da trattare perché gli operatori commerciano in previsioni di rischio (di tasso, di cambio, di credito, di perdita ecc.) e la valutazione dell’oggetto dipende dalla forma “ipotetica” che si assume nel calcolo: se la forma che assume in pratica è diversa la valutazione salta e le conseguenze ricadono sugli operatori più sprovveduti.

Come riequilibrare gli eccessi di moneta-finanza rispetto all’attività produttiva è il problema principale che devono affrontare le autorità di governo e controllo. Per ora l’aggiustamento principale è sui risparmiatori “cassettisti” o “non speculatori”: ogni anno essi perdono una piccola fetta di capitale in termini di potere di acquisto dei loro risparmi. Le autorità fiscali, invece di tentare di compensare il sacrificio loro richiesto con le politiche di tassi ufficiali tra lo 0 e l’1% (in Giappone, negli Stati Uniti e nell’Eurozona), vanno aumentando le tasse per soddisfare le istanze “della stabilità finanziaria”, senza rendersi conto dell’ironia della motivazione.

Alcuni Stati, tra cui l’Italia, hanno aggredito i redditi fino al limite del possibile e, avendo costatato che questa politica ha un effetto boomerang sul gettito fiscale per la caduta della crescita e dell’occupazione, invece di cambiare politica tributaria, vanno rivolgendo le loro brame al capitale e praticano la tassa patrimoniale come un inevitabile ed equo sbocco per garantire la “stabilità fiscale”. Proprio un bel circolo vizioso!

I bassi tassi dell’interesse e le maggiori tasse sfiorano appena la soluzione da dare al riequilibrio tra massa monetaria e finanziaria e beni reali. Prima o dopo, sia per la necessità di ricercare più elevati rendimenti, sia per muovere verso settori reali dove le tasse sono inferiori per propiziare la crescita necessaria, questa massa si indirizzerà verso la ricchezza reale, creando una categoria peculiare di inflazione, l’asset inflation. Ma ancor prima di giungere a questo sbocco – che ceteris paribus appare inevitabile, anche se in economia nulla lo è – gli operatori sfruttano le possibilità di guadagno operando sui cambi o, meglio, sfruttando le anomalie che contraddistinguono oggi questa materia: ogni paese segue il regime che gli fa più comodo.

Ai due estremi vi sono gli Stati Uniti, con i cambi flessibili (ossia scelti dal mercato finanziario), e la Cina, con i cambi “sporchi” (ossia scelti dalle autorità). Tra i due vi è l’Eurozona che, ufficialmente, ha il regime di cambio degli Stati Uniti, ma al suo interno cambi “irreversibili” che avvantaggiano la Germania (la quale ha tuttora un surplus della sua bilancia corrente superiore alla Cina, che resta sotto attacco).

Quando la Cina è insoddisfatta dei dollari che incassa e li converte in euro sul mercato, le esportazioni europee sensibili al prezzo cadono e lo sviluppo dell’Europa paga la contesa valutaria Stati Uniti-Cina. Se si aggiunge un interesse del Giappone ad avere uno yen debole, anche da questa area provengono impulsi negativi allo sviluppo europeo. L’euro fa la fine del vaso di coccio tra vasi di ferro. Da anni predico che la Banca Centrale Europea deve avere poteri di intervento sul cambio dell’euro, ma il problema viene ignorato.

Sulla possibilità di una guerra valutaria il problema non era il se, ma il quando. E il quando è arrivato, ma ha solo i tratti di una battaglia. Infatti, il problema più generale di un riequilibrio tra eccessi monetari e finanziari non viene affrontato e, per risolverlo, occorre convocare una nuova Bretton Woods per raggiungere un accordo nel quale i Paesi decidono quali sono le regole degli scambi monetari e finanziari, nonché quello dell’uso delle riserve, dopo aver discusso e in parte individuato le regole degli scambi reali in ambito WTO.

Non si vede all’orizzonte siffatta conclusione, né le menti che possono guidarla. Almeno la si chieda, perché, se l’Italia compisse il miracolo di aggiustare i conti pubblici, dare flessibilità al lavoro e far riprendere gli investimenti, il rapporto di cambio dell’euro la farebbe riprecipitare nel baratro che si voleva evitare.

Paolo Savona

Economista indipendente

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