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Quanta invidia italiana per i “boulevard” ciclabili di Londra…

Non ci si poteva che aspettare un’altra rivoluzione in chiave ultramoderna da chi ha fatto, prima di tutti gli altri, quella industriale. Londra decide di trasformarsi in una grande pista ciclabile a cielo aperto grazie al coraggio del suo sindaco, il pittoresco e tenace Boris Johnson che entro due lustri promette una nuova città, in tutti i sensi. Non sarà facile: alla voce uscite già ci si imbarazza per gli zeri presenti, i potenti referenti delle lobbies petrolifere gli faranno la guerra, gli incalliti automobilisti imbastiranno quella che è stata definita la sindrome nimby, Not In My Back Yard, i grandi gruppi editoriali finiranno per parteggiare per i desiderata dell’editore di riferimento. Ma ciò che conta è che non riusciranno a fermare un progresso che non è scientifico (passaggio da auto a bicicletta) ma mentale. La consapevolezza di poter contribuire a un tessuto urbano più umano, meno inquinante, più bello, più moderno e futuribile è la chiave di lettura di questo passo che, a differenza ad esempio di quello che avviene in Italia, non è una mera mossa elettorale. Bensì frutto di un programma preciso che non nasce ieri, di una strategia di lungo respiro che parte da lontano. Più semplicemente, di quella rivoluzione che i politici annunciano e che poi nessuno realizza.

Immaginare il caos trasportistico londinese irrorato dalla freschezza e dal vento “green” di boulevard ciclabili sarà un unicum mondiale e acuirà il rimpianto per una contingenza che, in Italia, è sempre meno fattibile. Per le resistenze ataviche al cambiamento, per il timore di fare qualcosa non gradito al proprio elettorato di riferimento, per la mancata conoscenza nel merito, per l’incubo settimanale del sondaggio di turno collegato al respiro di qualche ministro. Insomma, a quella marmellata gelatinosa e immobile, quasi una sorta di sabbie mobili permanenti, che prende il nome di Italia. E di cui, francamente, non se ne può più.

twitter@FDepalo

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