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Perché Renzi deve restare nel Pd

Caro direttore,

la provocazione di Romano Perissinotto – che nella sua lettera di ieri suggerisce a Matteo Renzi di rompere gli indugi e fare “quel saltino” verso lidi berlusconiani, o verso una “Italia Futura” che nel frattempo sappia tornare alle origini, quella che era prima di “annichilirsi” nel progetto montiano – coglie nel segno, evidenziando contraddizioni e ritardi sia della sinistra che della destra.

E’ vero che le idee, ma direi anche il linguaggio, e persino postura e sorrisi del sindaco di Firenze, sembrano stonati in un partito come il Pd, ancora ostaggio dell’ossessione antiberlusconiana e appesantito dalla tara statalista, dove l’“apparatchik” ha ancora il suo peso, e quindi che in questo senso possa sembrare “l’uomo giusto nel posto sbagliato”. Ma ciò a mio avviso non rende né più probabile né, a ben vedere, auspicabile, il suo “saltino”. Credo che Renzi debba combattere fino in fondo la sua battaglia “blairiana” nel Pd e che il centrodestra debba trovare il suo di Renzi. Dovrebbe essere questo l’ordine normale e non scandaloso delle cose, anche se ammetto che la nostra politica è tutto fuorché “normale”.

Innanzitutto, per una banale questione di credibilità personale. La politica italiana è già piena di personaggi che saltano da un partito all’altro, qualche volta per buoni motivi ma più spesso per convenienza, anzi per frustrazioni e piccole miserie personali. Non si vedono riconosciuta dal loro partito la leadership, o la poltrona, che ritengono di meritare, e allora cambiano casacca o se ne vanno e fondano il loro partitino. E di solito il “salto” non porta molta fortuna, gli elettori tendono a diffidare.

Ma anche perché in un certo senso Renzi è proprio l’uomo giusto nel posto giusto: il riformatore nel partito che ha urgente bisogno di essere riformato – nei contenuti, nello stile politico e nella classe dirigente. Così come dev’essere sembrato un marziano Tony Blair nel Labour dei primi anni ‘90, sarà stato accusato di cripto-thatcherismo, ma era esattamente l’uomo giusto al posto giusto.

Che Renzi riesca con il Pd laddove Blair è riuscito con il Labour è tutt’altro che scontato. Anzi, sono molto meno certo di quanto si tenda comunemente ad essere che sia predestinato a vincere trionfalmente le prossime primarie, o il prossimo congresso del Pd. Che sarà proprio lui il futuro leader del centrosinistra ci crederò solo quando lo vedrò con i miei occhi.

Ma è una battaglia che deve combattere nel Pd, almeno se riteniamo auspicabile avere, prima o poi anche in Italia, un sistema politico maturo, in cui i due principali partiti, uno di centrodestra e uno di centrosinistra, vincono, perdono, invecchiano, ma sono riformabili e contendibili. Non possiamo andare avanti con questa maionese impazzita che per rigenerarsi ha continuamente bisogno di veder sorgere come funghi mini-partiti personali, progetti terzisti (o quartisti), tsunami e rivoluzioni più o meno incivili.

Né dovrebbe essere Renzi a sopperire al vuoto di leadership che si annuncia nel centrodestra con il crepuscolo della leadership berlusconiana. E’ auspicabile che anche in questa parte dello schieramento politico il rinnovamento trovi le sue forme, i suoi contenuti e i suoi protagonisti. Comprensibile che Renzi susciti interesse e simpatia in un panorama così avido di novità, ma non bisogna commettere lo stesso errore di chi addirittura lo voleva a capo di un movimento liberista. Dovremmo forse rassegnarci all’idea che il centrodestra del futuro altro non possa essere che una sinistra in versione “renziana”, solo più moderata e “labour” del Pd?

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