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Washington alla prova del test coreano

Pubblichiamo un articolo del dossier “Corea del Nord: rischio reale o bluff” dell’Ispi 

C’è una dimensione che raramente emerge dal dibattito sulla Corea del Nord: quella storica. Da sempre, infatti, la penisola coreana è oggetto di contesa tra le potenze che esercitano, o vogliono esercitare, un ruolo di primo piano in Oriente e nel mondo. Inquadrare la questione in prospettiva storica gioverebbe, quindi, anzitutto alla Pax americana e al ruolo internazionale degli Stati Uniti.

Tra il 1894 e il 1895, un Giappone in ascesa sfidò una Cina in conclamato declino per il controllo della Corea; uno scontro simile vide protagonisti alcuni anni dopo la Russia zarista, che aveva perso molta della sua potenza bellica, e lo stesso Giappone. In entrambi i casi, Tokyo trionfò, mostrando all’Asia e al mondo che la sua voce non poteva più essere taciuta. Durante la Guerra Fredda, tra il 1950 e il 1953, l’invasione della Corea del Nord filo-comunista ai danni di quella del Sud filo-americana contrappose gli Stati Uniti all’alleanza tra Cina e Unione Sovietica: una guerra che, per Stalin e Mao, rappresentava anzitutto un mezzo per respingere l’avanzata americana in Oriente e proclamare la superiorità del comunismo nella regione e, in prospettiva, nel mondo. La guerra si concluse in sostanziale parità: il che dimostrò che la sfida a tutto campo tra il blocco occidentale e quello comunista era ancora lontana dal concludersi.

Anche oggi la Corea rappresenta un punto focale per la politica internazionale. Ça va sans dire, i protagonisti sono Washington e Pechino. A differenza del passato, però, né l’una né l’altra potenza sembrano avere, neppure lontanamente, l’intenzione di risolvere la disputa mediante l’utilizzo delle armi. La sfida rimane quindi sul piano diplomatico. La dipendenza della Corea del Nord dalla Cina è fatto ben noto, così come l’alleanza militare tra Corea del Sud e Stati Uniti incardinata nel Trattato di Mutua Difesa del 1954. Recentemente, la convergenza sino-americana al Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha mostrato una comune volontà di sgonfiare le ambizioni e i proclami di Pyongyang attraverso l’adozione di (ennesime) sanzioni economiche in nome della stabilità regionale. Una convergenza, però, evidentemente tattica, non certo strategica.

Washington e Pechino sono difatti destinate a giocarsi l’influenza in Corea. Il sessantennale armistizio, che divide la penisola all’altezza del 38° parallelo e che pone vis à vis le due sfere d’influenza, è ormai sfidato dalla prepotente ascesa cinese e dal declino (quantomeno economico) americano. Ciò che mostra l’attualità è che, di fronte alle minacce missilistiche del neo-dittatore Kim Jong Un – evidentemente una via rapida per maturare un necessario consenso interno –, sia gli Stati Uniti sia la Cina non hanno ora alcun interesse a una escalation che li chiamerebbe, volenti o nolenti, a intervenire direttamente. I rispettivi obiettivi di (medio-) lungo termine, però, sono decisamente divergenti. La Cina fatica già ora a tollerare la presenza degli Stati Uniti nel proprio cortile di casa; nel momento in cui alla crescita economica il Dragone farà combaciare quella diplomatica e militare, l’influenza e il controllo sui territori ai suoi confini diventerà il primo traguardo da raggiungere. La questione con il Giappone per le isole Senkaku/Diaoyu altro non è che un anticipo di ciò che potrebbe prefigurarsi, seppur non in modo speculare, in Corea.

Gli Stati Uniti hanno perciò di fronte una duplice scelta nel (medio-) lungo periodo. La prima è quella di contrastare risolutamente le ambizioni cinesi, creando attrito e contrapponendo frontalmente la propria potenza. La seconda è quella di riconoscere a Pechino una posizione di primo piano e i suoi interessi vitali nella regione, e con ciò le proprie aree d’influenza. Fin qui Obama ha prediletto una politica “del bastone e della carota”. I provvedimenti volti a contenere l’espansione cinese, come la Trans-Pacific Partnership – aperta alla Corea del Sud – e l’inaugurazione di nuove basi militari nel Pacifico, sono stati compensati dalla sostanziale indifferenza per la sovranità reclamata dalla Cina sulle Senkaku/Diaoyu e da un low profile sulla questione del Tibet. È, però, una posizione “di comodo” mantenibile solo in questa fase di transito nelle dinamiche del potere. La Corea sarà il banco di prova su cui Washington dovrà compiere una scelta definitiva, che avrà forti implicazioni sul proprio ruolo internazionale e, di riflesso, sugli equilibri regionali e globali.

È perciò evidente che ancora una volta la Corea svolge il ruolo di territorio conteso tra due paesi i cui rapporti sono in evoluzione e il cui esito appare in grado di rappresentare efficacemente i nuovi assetti internazionali. Per giungere a una soluzione pacifica, Washington dovrebbe rifuggire logiche da Guerra Fredda, trasversalmente in voga sia tra i democratici sia tra i repubblicani. Non solo dovrebbe, dunque, riconoscere simbolicamente a Pechino il grado di grande potenza – cosa che già fece nel 2009 con il G2 –, ma dovrebbe farne anche un partner diplomatico non solo di breve periodo. Ciò significherebbe responsabilizzarla direttamente nel suo backyard coreano, un territorio la cui stabilità – minacciata anzitutto dal paventato utilizzo dell’arma nucleare – costituisce un interesse vitale per la stessa Cina. Significherebbe anche, però, riconoscere che i rapporti di forza tra Asia e Occidente sono ormai mutati. Una grande sfida, anzitutto psicologica, per l’ex superpotenza.

Davide Borsani è PhD Candidate in Storia delle Relazioni e delle Istituzioni Internazionali all’Università Cattolica del Sacro Cuore.

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