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Che cosa può fare il ministro Saccomanni per contrastare il rigore teutonico

Se Fabrizio Saccomanni è un difensore che non sa segnare, come dice Gustavo Piga, lo vedremo nelle prossime settimane. Le sue prime dichiarazioni programmatiche rilasciate a Repubblica (meno spese, meno tasse, più sviluppo) lo mettono in un ruolo da mediano di spinta.

Fuor di metafora, sono d’accordo con gli obiettivi del professor Piga: “L’alleanza con i francesi per dire per sempre basta all’austerità, per far ascoltare ai mercati quello che vogliono sentirsi dire, che gli assicureremo la solvibilità del nostro debito con l’unica moneta sonante che apprezzano, la ripresa economica”.

Ma tutto ciò non è compito del ministero dell’Economia soltanto, bensì del governo nel suo complesso. Anzi tocca direttamente in prima persona al presidente del Consiglio, a Enrico Letta e, per quel che è di sua competenza, al capo dello Stato, Giorgio Napolitano, che in questi ultimi anni è diventato il garante nei confronti dei principali consessi internazionali, non esclusa la Banca centrale europea.

La politica economica è politica tout court, tanto più se l’obiettivo (concordo con Piga anche se mi faccio meno illusioni su una Francia che rompe l’asse con la Germania, avendo conosciuto da vicino la politica transalpina) è uscire dalla trappola mortale dell’austerità modello teutonico che ci sta portando dritti dritti in deflazione.

Contrattare spazi di manovra con Angela Merkel, chiedere un rinvio nel pareggio di bilancio, evocare nuovi poteri per la Bce, ridiscutere i trattati (perché di questo si tratta e ci arriveremo subito dopo le elezioni tedesche) questa è politica estera non solo economica, anzi è politica senza aggettivi. Tocca a Letta, a Emma Bonino come a Saccomanni (che tra l’altro è sempre stato sviluppista e negli ultimi tempi lo ha detto a chiare lettere in consessi ufficiali).

Perché uno degli errori maggiori è proprio considerare l’euro una questione che riguarda l’economia. Tutti sanno che non è così. La moneta è l’ipostatizzazione dei rapporti sociali, economici e politici. Scriveva il grande storico francese Marc Bloch, nei suoi Lineamenti di una storia monetaria d’Europa: “Un tempo barometro di movimenti profondi e cause di non meno formidabili diversioni delle masse, i fenomeni monetari si collocano tra i più degni di attenzione, i più rivelatori, i più carichi di vita… la loro stessa oscurità dipende dai loro molteplici legami con tutti gli aspetti più intimi dell’attività umana”.

In Germania prende forza un movimento anti euro che nasce dall’interno dell’élite economica e accademica. In Italia si manifesta come rigetto populista a destra e a sinistra. La Francia, non lo dimentichiamo, nel 2005 respinse con un referendum la Costituzione europea. Il cammino oltre l’austerità è un ponte tibetano sotto il quale c’è anche la fine dell’euro, ormai discussa non più come ipotesi di scuola, ma come scelta politica. Appunto, politica.

Certo che il ministero dell’Economia non deve fare il catenaccio a difesa del rigore puro e semplice. Ma dipende se l’intera squadra, a cominciare dal suo capitano, saprà giocare la vera partita dei prossimi mesi (a settembre si vota in Germania e poi comincia la danza).

Un’ultima notazione: nella scelta di Saccomanni ha influito chiaramente anche il suo rapporto con Mario Draghi (sarebbe stato lo stesso se al suo posto fossero andati Salvatore Rossi o il governatore Ignazio Visco). Non è un aspetto secondario. Non bisogna dimenticare che nell’estate dello scorso anno l’Italia è stata salvata ancora una volta da Draghi e il presidente è sotto attacco nella Bce. La Bundesbank rimette in discussione il meccanismo di stabilità e gli interventi a sostegno dei titoli pubblici, vedi il parere giuridico inviato alla Corte costituzionale tedesca che deve decidere ai primi di giugno.

Dunque, si sta svolgendo una partita parallela che mette in discussione la tenuta di Draghi e il suo potere nell’Eurotower. Una partita tutta politica nella quale le considerazioni tecniche, giuridiche o economiche, fanno più che mai da ancelle del potere. Mettere un altro, anche un Amato, sulla poltrona di Quintino Sella, sarebbe stato un segnale chiaro che l’Italia mollava il suo “campione” in territorio nemico. Una considerazione tattica o opportunistica? Nient’affatto.

L’Italia è in svantaggio, non bisogna mai dimenticarlo, e per recuperare ha bisogno davvero dell’astuzia della volpe e della forza del leone. La prima non manca (anche se non sempre). E la seconda?

Stefano Cingolani

(giornalista, saggista, editorialista e curatore del blog www.cingolo.it)

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