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Primo Maggio, festa del lavoro. Un bilancio della riforma Fornero

Lavoro, lavoro, lavoro: è questa la parola d’ordine che rimbalzerà in tutte le manifestazioni celebrative del 1° Maggio. A tal proposito, il premier Enrico Letta, nello svolgere le sue comunicazioni al Parlamento, si è soffermato ad indicare delle proposte che vanno da un intervento di sostegno per i redditi più bassi al rifinanziamento della cig in deroga, dagli incentivi per l’occupazione giovanile e femminile al potenziamento dell’apprendistato dall’estensione al lavoro precario degli ammortizzatori sociali, fino a prefigurarne addirittura il superamento nella pubblica amministrazione. Ma, come ha sostenuto Letta, per creare lavoro non sono sufficienti gli incentivi.

Nel creare o nel distruggere posti di lavoro la vera protagonista rimane l’economia. Non cadremo quindi nell’errore di attribuire ad una legge (segnatamente alla legge n.92 del 2012 e cioè alla riforma del lavoro del ministro Elsa Fornero) il merito di una maggiore occupazione o il demerito dell’aumento della disoccupazione. Le norme possono, però, svolgere un ruolo importante: certamente, adeguati incentivi economici e fiscali o regole più trasparenti, meno burocratiche e più flessibili possono favorire l’impiego; nessuna agevolazione di carattere economico, come ha riconosciuto anche il giovane premier, può compensare un disincentivo normativo. Questa considerazione – molto cara a Marco Biagi – nasce dall’esperienza, la quale è inconfutabile su di un punto: anche favorendo in tutti i modi possibili le assunzioni a tempo indeterminato, i vincoli che contraddistinguono questo rapporto di lavoro – specie in uscita – ne scoraggiano l’utilizzo da parte delle imprese, almeno per un arco temporale più o meno lungo, durante il quale si fa ricorso a tutte le tipologie di assunzione alternative, finanche elusive, allo scopo di garantirsi, in entrata, qualche possibilità di flessibilità in uscita.

A questa problematica cerca di dare risposta, seppure in termini un po’ macchinosi, un disegno di legge (AS 555) presentato al Senato, su iniziativa di Pietro Ichino, dal gruppo di Scelta Civica. Tutto ciò premesso, non abbiamo difficoltà ad ammettere, anche sul piano empirico, che non sarebbe corretto imputare alla legge Fornero sul mercato del lavoro, l’aggravamento dei tassi di occupazione e di disoccupazione verificatisi nel secondo semestre del 2012. Ma gli indicatori sono, tanto ed univocamente, negativi da indurre a ritenere che qualche effetto concorrente non possa proprio essere escluso.

Vediamo i dati. A luglio 2012 (quando è entrata in vigore la legge n. 92) il numero degli occupati era di quasi 23 milioni. Da allora l’occupazione è calata costantemente (con l’eccezione del mese di ottobre quando è cresciuta dello 0,1% pari a 25mila occupati). Sono stati persi 74mila posti ad agosto (-0,3%), 32mila a settembre (-0,1%), 42mila a novembre (-0,2%), 81mila a dicembre (-0,4%) e 97mila a gennaio 2013 (-0,4%), per una perdita complessiva di 302mila posti di lavoro. A gennaio di quest’anno gli occupati erano 22milioni e 688mila – il livello più basso registrato a partire dal 2010 – con un calo dell’1,2% rispetto a gennaio 2010, pari, in valori assoluti, a 265mila occupati in meno.

Anche dall’angolo di visuale dei livelli di occupazione per genere si deve prendere atto di un seppure più modesto peggioramento, nel periodo considerato, anche per quanto riguarda il lavoro delle donne, che, nei mesi precedenti, aveva sempre evidenziato un andamento migliore di quello degli uomini. L’occupazione maschile, infatti, è continuata a calare a partire dalla metà del 2011 fino a giugno del 2012 , mentre nel successivo mese di luglio sono stati recuperati 22mila posti di lavoro (+0,2%). Dopo l’entrata in vigore della legge n.92, l’occupazione è ripresa a scendere (salvo una piccola inversione di tendenza in ottobre del + 0,1%) arrivando a perdere ben 191mila posti di lavoro, con un picco di 78mila (-0,6%) nel mese di settembre. A gennaio 2013, l’occupazione maschile si è abbassata al livello di 13,3 milioni, pari al -3% rispetto a gennaio 2010. L’occupazione femminile nel luglio 2012 aveva raggiunto quota 9,5 milioni (+2,7% rispetto a gennaio 2010). Tale livello è rimasto praticamente stazionario (con oscillazioni minime) fino ad ottobre. Da novembre è incominciato un decremento, con la perdita in tre mesi 117mila posti di lavoro, raggiungendo così quota 9,39 milioni di unità, cifra comunque superiore dell’1,5% rispetto a quella del gennaio 2010. Quanto ai disoccupati, il loro numero, negli ultimi anni, è cresciuto fino ad arrivare a gennaio 2013 ad una quota di poco inferiore a 3 milioni (+40,9% rispetto all’inizio del 2010). Fino ad aprile 2011 il numero dei disoccupati è andato calando (-9,4% rispetto a gennaio 2010); da quel momento in poi è iniziato ad aumentare arrivando nel luglio 2012 a quota 2,7 milioni (con 802mila posti di lavoro perduti). Successivamente, è proseguito il trend negativo che negli ultimi due mesi del 2012 si è stabilizzato per un totale di 158mila posti di lavoro in meno. Nella seconda metà del 2011 se ne erano persi 324mila.

A gennaio 2013 si è accentuato il trend negativo con una perdita di 110mila posti. Dall’entrata in vigore della riforma gli uomini hanno perduto 169mila posti di lavoro (un andamento in calo, rispetto agli anni precedenti). Quanto alle donne negli ultimi 6 mesi dell’anno scorso il numero di donne disoccupate è aumentato di 50mila unità (- 128mila nello stesso periodo del 2011; -122mila nel primo semestre del 2012). A gennaio del 2013 si è riscontrato un aumento delle donne disoccupate di 49mila unità, portando quindi a 99mila il numero delle lavoratrici che hanno perso l’impiego dopo l’entrata in vigore della legge Fornero. Complessivamente, il tasso di disoccupazione a gennaio 2010 era di 8,5 punti; nel giro di tre anni è salito di 3,2 punti portandosi all’11,7%. Da quando è entrata in vigore la riforma tale tasso è cresciuto di 1,1 punti percentuali.

Ciò premesso in via generale, spostiamo adesso la nostra ricerca in direzione di aspetti più specifici come il tasso di occupazione giovanile suddiviso per genere e l’andamento di singole tipologie contrattuali, nella convinzione che in tal modo risulteranno anche più attendibili le valutazioni relative agli obiettivi e alle finalità della legge, che ha cercato di promuovere talune forme contrattuali al posto di altre che dovevano essere scoraggiate o ridimensionate nel loro utilizzo.

Tasso di occupazione giovanile (15-29 anni) nel 2012
Nel corso della prima metà dell’anno il trend ha conosciuto un calo abbastanza contenuto: -0,3% nel I trimestre; -0,2% nel II; -0,2% nel III. Poi nel IV ecco un secco -1,5%. Quanto al dato di genere, l’occupazione maschile nel IV trimestre è diminuita del 2,1% rispetto al III, quella femminile dello 0,9%.

Contratto a tempo indeterminato
In questa fattispecie, che veniva incoraggiata dalla riforma, si è notato un leggero miglioramento: +0,3% nel III trimestre, +0,1% nel IV. In valore assoluto si tratta di 14.859.000 unità, uno dei livelli comunque più bassi degli ultimi tre anni.

Contratto a tempo determinato
Nel valutare i dati relativi a questa tipologia occorre tener conto anche di aspetti di carattere stagionale, dal momento che negli ultimi mesi dell’anno per i contratti a termine si verifica una scadenza che si potrebbe considerare fisiologica. Inoltre, in questa fattispecie sono state introdotte nuove limitazioni, ancorchè parzialmente modificate in sede di approvazione della legge. A fronte di una sostanziale stabilità intorno al numero d 2,5 milioni di contratti fino al III trimestre 2012, nel IV si è verificato un calo del 3,3%. Letta, nel suo discorso, ha annunciato che, per la durata della crisi, saranno apportate delle modifiche nel senso di una maggiore fruibilità di questo contratto da parte delle imprese.

Apprendistato
Il dato dell’apprendistato merita una particolare attenzione per il ruolo che il governo, il Parlamento e le stesse parti sociali vogliono attribuire all’istituto che dovrebbe diventare il canale ordinario di ingresso dei giovani nel mercato del lavoro. Eppure, allo stato, l’andamento non è all’altezza delle aspettative. Nel III trimestre del 2012 il numero dei contratti ha subito una flessione dell’1,6%, mentre un’ulteriore calo del 2,4% si è riscontrato nel IV trimestre, quando il numero degli apprendisti è risultato pari a 159mila (-31,5% sul 2010, pari ad 88mila unità in meno). Anche questo istituto verrà potenziato nelle intenzioni del governo.

Collaboratori
Si tratta di una fattispecie contrattuale penalizzata dalla legge Fornero. E i risultati si vedono: -7% nel III trimestre (da 462mila del II a 430mila); -5,8% nel IV (405mila, un numero comunque ancora superiore ai 396mila dell’inizio del 2010.

Professionisti (titolari di partita Iva)
Si tratta di un altro settore che ha conosciuto un percorso legislativo parecchio travagliato, ricevendo diverse modifiche all’impostazione iniziale. Ciò nonostante nel IV trimestre si è registrato un incremento del 4,6% sul III; in valore assoluto e complessivo si tratta di 1.298.000 unità, il numero più alto registrato anche rispetto alle 1.257.000 dell’inizio del 2012. Evidentemente questo rapporto viene ancora ritenuto <sostenibile> sul versante della flessibilità in entrata.

Lavoratori a tempo pieno e a part time
Il lavoro full time negli ultimi due anni ha subito una contrazione del 2,7% perdendo rispetto al 2010 530mila unità di cui ben 500mila nella seconda metà del 2011. Nel 2012 si è assistito ad un fenomeno di leggera crescita fino al III trimestre, riscontrando poi una caduta dell’1,5% (- 282mila posti di lavoro) nell’ultima parte dell’anno.
E’ aumentato invece il lavoro a part time. L’inversione di tendenza si è avuta dal III trimestre: +16,9% dal 2010 (passando da 3.405.000 a 3.982.000). Dalla fine del 2011 alla prima metà del 2012 ben 530mila lavoratori a tempo parziale sono andati ad occupare il posto di altrettanti lavoratori full time. Già nel II trimestre erano 3.977.000. Dopo la riforma Fornero si ha, anche in questo caso, un’inversione di tendenza con -3,3% pari a -130mila posti di lavoro. Poi negli ultimi mesi la situazione si riprende: +3,5% con un incremento di 135mila unità.

Considerazioni finali
Il cambiamento (un sostantivo che Pier Luigi Bersani, durante le consultazioni, ha reso inviso e pernicioso) sembra essere stato particolarmente modesto. Forse è presto per trarre delle conclusioni, ma non si può non notare che laddove vi sono stati degli spostamenti da un rapporto di lavoro ad un altro, questi sono sempre stati caratterizzati dalla ricerca delle flessibilità ancora consentite e possibili; sovente, poi, lo scambio non è avvenuto a saldo attivo e neppure a somma zero. Ma in perdita di posti di lavoro. La crisi ha svolto certamente un ruolo preponderante, ma i benefici attesi dalla legge n. 92 per ora non sono stati avvertiti.

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