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Quando i banchieri sonnecchiano sulla bomba derivati

Le reti globali (economiche, finanziarie, sociali) hanno creato enormi opportunità di sviluppo, ma hanno anche introdotto meccanismi di propagazione (umani e naturali) che, a causa dell’incertezza diffusa, alla fine, sono anche risultati spesso causa di disastri.

La cosiddetta “globalizzazione di tutto” ha creato più confusione e smarrimento che nuovi equilibri. Ad esempio, l’incrementata mobilità delle persone ha determinato una rapida diffusione di nuove epidemie con conseguenze negative sulla salute globale e sul benessere sociale.

Dirk Helbing, fisico e docente di sociologia presso l’Istituto Federale di Tecnologia di Zurigo, ha illustrato come gli effetti “a cascata” di dinamiche complesse possono amplificare la vulnerabilità di sistemi a rete (Networking Systems). Tendenze inizialmente benefiche, come la stessa globalizzazione, aumentano la densità della rete e acuiscono, in tal modo, la complessità dei suoi meccanismi di funzionamento. In tal modo, tali tendenze accelerano i processi decisionali interni alle Istituzioni, spingendo i sistemi costruiti dall’uomo, o influenzati dall’uomo (finanziari, economici, infrastrutturali, sociali, comportamentali) verso l’instabilità.

Nell’analisi dei Networking Systems attualmente esistenti, secondo Helbing, vi è una eccessiva “gerarchia”, tale per cui le diverse componenti devono mantenere ruoli che vengono “stabiliti” inizialmente per far funzionare l’intero meccanismo. Ma questa “disciplina” deve scontare la possibilità che, nell’evoluzione delle dinamiche del sistema, si verifichino anche comportamenti contrari all’ordine originario in altre “componenti del sistema”. Ad esempio, un comportamento inizialmente cooperativo tra due attori del sistema potrebbe inaspettatamente interrompersi nel momento in cui l’“interazione” reciproca dovesse crescere fino al momento da dover diventare “intersezione”.

Secondo Helbing, uno schema simile può aiutare a comprendere il crollo del sistema bancario globale del 2008. Agli occhi dell’opinione pubblica, infatti, la crisi finanziaria avrebbe colto di sorpresa i regolatori del sistema. In realtà, già nel 2003, Warren Buffett aveva già avvertito dei rischi catastrofici creati dai grandi investimenti in strumenti finanziari derivati. Nei cinque anni successivi, l’inerzia del sistema nei confronti di questo rischio ha consentito che tali investimenti, una vera e propria “bomba ad orologeria”, esplodessero, causando perdite di migliaia di miliardi di dollari, pur avendo già incorporato i premi di rischio relativi alle perdite stesse.
Quasi come se il processo fosse ineluttabile. Tutto cambi perché nulla cambi.

Questo è avvenuto in quanto, secondo Helbing, l’architettura finanziaria non è progettata correttamente, mancando in essa dei “punti di rottura” (come, invece, presenti, ad esempio, nei sistemi elettrici). L’assenza di “indicatori di allarme” o di processi paralleli di emergenza consente a problemi locali di propagarsi a livello globale, raggiungendo in tal modo dimensioni catastrofiche.
Il problema posto da Helbing, molto sentito nella Comunità finanziaria internazionale, ha rappresentato il focus di una Conferenza tenutasi in settimana a Roma, presso la sede dell’Associazione Bancaria Italiana, ed organizzata dal Fondo Interbancario per la Tutela dei Depositi, su “New Dimensions on Measuring and Managing Banks Derivatives Risks”.

Nel corso degli autorevoli interventi da parte di esperti internazionali sono emersi diversi elementi di interesse, tutti convergenti sull’unico vero aspetto rilevante, ossia l’esigenza di creare “indicatori di allarme” (tipici della Quant-Intelligence, oggetto analisi da parte dell’Istituto di Studi Strategici “Niccolò Machiavelli”) che consentano di percepire concretamente il rischio di un’esposizione eccessiva nel portafoglio di una banca.

Il problema si pone soprattutto alla luce della mancanza di competenza e di conoscenza dei problemi che, per quanto emerso, taluni membri di Consigli di Amministrazione (CdA) di banche disporrebbero. Come sorprendentemente ha affermato Stefano Mieli, già Direttore Centrale dell’Area Vigilanza presso la Banca d’Italia, durante il Convegno, infatti, “in alcuni casi, potrebbe essere utile organizzare occasioni formative ad hoc” per i membri dei CdA delle banche al fine di consentir loro “che un numero significativo di essi sia in grado di comprendere gli aspetti essenziali delle operazioni e delle strategie svolte”. La rappresentazione lascia perplessi anche perché proveniente da un eminente funzionario dell’Istituto Centrale (oggi in pensione e, forse per questo, libero di esprimere il suo pensiero).

Uno degli interventi più rilevanti ai fini del nostro ragionamento di Quant-Intelligence è stato quello del prof. Wolf Wagner il quale ha presentato la sua derivazione di un Credit Risk Indicator (CRI), ossia di (1) una misura della qualità degli asset in portafoglio (includendo l’esposizione al rischio di credito derivante da origini non convenzionali, come ad esempio i mercati dei Credit Default Swap), (2) effettuata a partire da segnali provenienti dal mercato (dunque, più difficilmente manipolabili), (3) riguardante un “rischio relativo” (consentendo la comparazione del livello assoluto di rischio) tra banche.

Tralasciando l’esposizione matematica per la quale si rimanda al paper (“A Market-Based Measure of Credit Portfolio Quality and Banks Performance During the Subprime Crisis”, http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=1274815), Wagner (insieme a Martin Knaup) basa il suo indicatore sull’informazione incorporata nei prezzi azionari delle banche (che rappresentano la valutazione di mercato della banca). Identificando le c.d “default risk news” nelle variazioni negli spread tra un alto ed un basso CDS, si ottengono le c.d. “sensitività” dei corsi azionari, dalle quali matura il CRI come rapporto tra la sensitività ad alto rischio (high-risk sensitivity) del portafoglio della Banca rispetto alla sensitività totale (high-risk + low-risk sensitivity).

Il CRI, in tal modo, consente la misurazione della quota di esposizioni ad alto rischio nel portafoglio della banca, così come percepita dagli investitori nelle azioni di quella banca.
I risultati dell’analisi di Wagner sono molto significativi. Stimando il CRI per le 150 principali banche statunitensi, nel corso del periodo assunto come campione (da Febbraio 2006 a Marzo 2010), il CRI aggregato risulta stabile. Ciò significa che il mercato (rappresentato dal campione) aveva già “incorporato” nelle proprie decisioni la consapevolezza dell’elevata esposizione al rischio precedente alla crisi.
Ciò conferma l’affermazione precedente relativa all’inerzia del sistema.

Questa conclusione riporta a quanto espresso da Helbing. La prevedibilità e la controllabilità di un rischio sono risultanti di una scadente progettazione, così come l’incertezza nel sistema stesso (ossia l’impossibilità di determinare la probabilità e l’entità attesa del danno) è spesso causata dall’uomo con l’adozione di comportamenti adattivi (ossia basati sul periodo precedente) invece che razionali (ossia basati sull’impiego della logica e dell’informazione a disposizione).
La disponibilità di tutti i dati del mondo non potrebbe compensare un sistema mal concepito, come a tutt’oggi risulta essere il sistema finanziario globale. Tale sistema rischia di andare fuori controllo, ed in tal caso i guasti sarebbero catastrofici. Per questo riflessioni come quelle di Helbing inducono a ritenere che una sua riprogettazione sia urgente.

Cunctator è senior researcher dell’Istituto italiano di studi strategici “Niccolò Machiavelli”

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