Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche
ultima rivista airpress

L’eredità (ancora fraintesa) di Aldo Moro

Nessun ricordo di Aldo Moro è lecito – nel senso della veridicità storica – senza una corretta ricostruzione documentale e testuale della sua riflessione e proposta politica. Il presidente Napolitano per tentare di dare un’indicazione – se non un indirizzo – ai protagonisti dell’attuale momento politico si è di recente richiamato alla proposta della solidarietà nazionale che proprio Moro dopo le elezioni politiche del 1976 propose alla Democrazia cristiana e al Partito comunista italiano. Ne sortirono i due governi presieduti da Andreotti. L’epilogo fu dato dal 9 maggio 1978.

A Moro non è toccata soltanto quella tragica sorte – il suo cadavere consegnato nel portabagagli di una Renault rossa – ma anche la beffa di un monumento, che gli è stato dedicato in una piazza di una cittadina delle Puglie, che lo raffigura con una copia del giornale l’Unità piegata nella tasca della giacca. Sarebbe andata bene per la statua di Peppone e don Camillo di Guareschi. Nelle mani di Moro ci poteva stare una copia de Il Popolo, il quotidiano del suo partito, o per forzare la fantasia una copia de Il Giorno nelle cui colonne vennero pubblicati in un certo tempo i suoi articoli. La memoria di Moro ha dovuto sopportare non soltanto un’alterazione dell’immagine, ma un travisamento del suo pensiero politico. Tutta la problematica riflessione sulla Terza fase nella vulgata è stata ridotta spesso alla previsione-profezia dell’ineluttabilità dell’incontro, non soltanto dell’alleanza, dei cattolici democratici con l’esperienza del Partito comunista e del comunismo (toutcourt).

La transizione come era stata pensata da Moro aveva un’altra prospettiva e seguiva altro itinerario: l’alternativa democratica. Moro allora non si muoveva per compiacere un’astratta scelta verso il comunismo; egli piuttosto, prendendo con lucido realismo atto dei cambiamenti profondi della società italiana e del fatto che non veniva consegnata alla Dc una maggioranza per il governo del Paese, si proponeva di responsabilizzare il Pci. Nel 1976 l’Italia stava ancora sull’onda lunga del ‘68 con la rottura di ogni schema di equilibrio nel rapporto capitale-impresalavoro-sindacato. Le lotte sociali avevano un riflesso nelle diverse organizzazioni terroristiche. Moro si rendeva conto della necessità di affrontare questa crisi in termini di ripristino della “responsabilità” dei grandi soggetti della scena economica, sociale e politica. Era convinto e comunque contava sull’affidabilità democratica di Berlinguer e del suo gruppo dirigente. Considerava che l’europeizzazione del comunismo ne implicasse una trasformazione social-democratica come quella che era avvenuta in Germania e come poi avvenne in Spagna e Portogallo.

Moro avvertiva poi l’esigenza politica di un salto di classe dirigente nella Democrazia cristiana, non soltanto in termini generazionali, ma in termini di funzione politica e culturale. Che il rinnovamento della Dc dovesse procedere dall’esaurimento della fase di transizione per la quale e nella quale la Dc non avrebbe dovuto perdere nessuna delle sue energie e nessuno dei suoi uomini. Non aveva accettato pregiudiziali su alcuni ministri indicati dalla Democrazia cristiana nel governo Andreotti. Al Pci, che doveva provare concretamente di stare nella democrazia italiana, con le regole della Costituzione – anche quella materiale che contemplava la saldatura dell’Italia all’Europa (Cee) e all’occidente (Nato) – Moro non consentiva di usare opportunisticamente la leva del moralismo e del giustizialismo, come invece è stata usata nel 1992–1994. Nella Terza fase, la nuova Dc sarebbe stata alternativa alla sinistra.

Il pensiero di Moro non contemplava la formazione dell’attuale Pd come fusione di una parte degli ex comunisti e di una parte degli ex democristiani. Contemplava un’alternativa tra un partito nuovo dell’area socialista e un partito rinnovato come le democrazie cristiane nell’area liberal-popolare. Nel pensiero di Moro alitava, ma in modo realistico, e senza suggestioni di tipo storicistico-hegheliane, il senso della speranza del cambiamento positivo del sistema politico italiano. Moro più volte si era soffermato nel dibattito politico sulla trasformazione della società italiana con la determinazione di mutamenti anche epocali.

Aveva colto la crisi morale della società italiana conseguente alla secolarizzazione, aveva profondamente meditato sul significato e sul risultato del referendum sul divorzio del 1974 e sulla fine dell’obbligatorietà dell’unità dei cattolici, e quindi aveva colto pienamente le ragioni dell’esaurimento nel vivo della storia italiana delle ipotesi che si ponevano a carico dell’immaginario dossettiano.

Per chi lo può ricordare quando ancora era segretario del partito nel 1962, mentre con i convegni di San Pellegrino aveva preparato le linee del centro-sinistra, e quindi della caratterizzazione della Democrazia cristiana come partito delle riforme sociali, aveva, poi, promuovendo il convegno dell’Eliseo su Sturzo, indicato una prospettiva che a molti appariva contraddittoria e invece era semplicemente ed arditamente aperta al futuro. In quel convegno con la relazione di Gabriele De Rosa aveva aperto una riflessione non soltanto storica sul pensiero di Sturzo, che era stato l’asse della robusta armatura politica della fase centrista.

Moro non sempre fu compreso e ascoltato, anzi fu frainteso fino all’iconografia impropria del monumento con l’Unità. Il suo barbaro assassinio ha chiuso una stagione politica per l’Italia e ha preannunciato che l’equilibrio politico del Paese sarebbe saltato, sino a produrre la situazione odierna, con le confusioni alle quali assistiamo e con la crisi endemica di sistema. A pensarci bene la sua indicazione per la Terza fase è quella dell’alternativa che si gioca fondamentalmente tra due grandi partiti: uno, quello che viene dalle esperienze anche contraddittorie e travagliate del comunismo e del socialismo, l’altro quello del popolarismo di Sturzo, De Gasperi e Moro.

Calogero Mannino
Già ministro della Repubblica

Intervento pubblicato sul numero di maggio della rivista Formiche

×

Iscriviti alla newsletter