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Con Epifani vince l’asse Letta-Bersani-Franceschini

Le liti interne non hanno mai risparmiato nessun partito, figurarsi un soggetto giovane e plurale come il Partito Democratico.
I segretari che si sono succeduti alla sua guida hanno tastato con mano quanto sia difficile sbarrarne la finestra, che consente a tante correnti di circolare liberamente.
E anche di procurare brutti raffreddori, come quello che ha costretto alle dimissioni un volenteroso, ma poco seguito Pierluigi Bersani.

Dopo essere caduto sotto i colpi del fuoco amico per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica, Bersani ha capito che l’unica strada per mantenere un ruolo in questo Pd era quella di abbandonare le ambizioni di governo e ritagliarsi qualche soddisfazione personale.

Nasce così l’alleanza che ha portato Enrico Letta a Palazzo Chigi e Dario Franceschini a ricoprire l’incarico di ministro per i rapporti con il Parlamento, consentendo all’ex segretario di Bettola di inserire tra ministri e sottosegretari pedine preziose per arginare l’avanzata di chi ha contribuito a consumarlo dall’interno.

Un nome su tutti: Massimo D’Alema. Dopo aver apertamente sostenuto la candidatura di Bersani – forse più in chiave anti-Renzi che per convinzione reale, ma questo rimarrà un dubbio – l’ex presidente del Consiglio non ha digerito la leggerezza con la quale il precedente segretario Pd lo abbia tenuto fuori prima dalle liste per il Parlamento e poi dal dibattito sui nomi del nuovo esecutivo. Per questo fino all’ultimo momento D’Alema ha tentato di far passare per la guida del Pd nell’ordine i nomi di Anna Finocchiaro, Roberto Speranza e Gianni Cuperlo. Tutti uomini stimati da Bersani, ma che avrebbero aperto varchi pericolosi. E così si è deciso di puntare su Guglielmo Epifani, traghettatore esperto e non (ancora) apertamente schierato. Il classico “uomo della provvidenza”.

Tuttavia sorge il dubbio che nella continua corsa al posizionamento interno, nessuno sarebbe oggi nel Pd in grado di governarne i processi. Che è poi il motivo per il quale Matteo Renzi si rifiuta in modo così ostinato – a tratti quasi controproducente – di prenderne il timone.

La responsabilità ovviamente non è dei singoli, ma di un partito nel quale l’obiettivo non è il gioco di squadra, ma una continua conventio ad excludendum per ritagliarsi un posto al sole a scapito di qualcun altro.

Su un piano puramente pubblico, la scelta dell’ex sindacalista Cgil è il nome che mette d’accordo tutti, davanti al quale nessuno ha osato porre veti.
In realtà è stata l’unica soluzione possibile per impedire che si scatenasse una reazione a catena che avrebbe portato a un’ostilità aperta nei confronti del nuovo segretario o – nel caso migliore – a un’elezione dimezzata, che avrebbe consegnato al coordinatore una leadership messa in discussione in partenza.

Tutto è bene quel che finisce bene? Nemmeno per sogno.

Malgrado le buone intenzioni, a Epifani non resterà che mettere un impermeabile e prepararsi al peggio, perché il maltempo aumenterà man mano che ci si avvicinerà al congresso di ottobre e le pedine inizieranno nuovamente a muoversi e a incrociarsi sullo scacchiere del Pd.

E quando le correnti s’incontrano, si sa, generano brutti temporali e a volte qualche tempesta.

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