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La tragedia dei bambini in Siria

Mentre le diplomazie sono impegnate a convocare una nuova conferenza internazionale a Ginevra, in Siria si continua a morire ogni giorno. La nebbia della guerra rende difficile perfino una stima precisa delle vittime causate dal conflitto e di chi, come i rifugiati o i feriti, ne sta subendo pesantemente le conseguenze.

La guerra civile in Siria ha caratteristiche drammaticamente uniche sotto il profilo geopolitico e umanitario. La Siria è da sempre un crocevia strategico di interessi per le grandi potenze mondiali e per chi, nella regione, ambisce ad avere un ruolo di primo piano. Il vento delle cosiddette primavere arabe si sta fermando. In paesi come la Tunisia, l’Egitto e la Libia, dove per primi i giovani nelle piazze hanno fatto cadere regimi autoritari che sembravano granitici, si è aperto un confronto spesso violento tra le diverse anime della società e della politica. Gruppi di fanatici religiosi si scontrano con le componenti più moderate di quei paesi, per affermare un’idea di Islam politico che le dittature avevano represso per decenni.

Nessuna transizione è facile. Non lo fu quella italiana del Secondo Dopoguerra, non può esserla quella in Nord Africa, dove non sono mai esistite Istituzioni democratiche o una stampa libera. Occorrerà tempo e pazienza ma bisogna anche essere ottimisti sulle prospettive di medio – lungo termine. Soprattutto bisogna supportare con convinzione e con impegno la transizione di quei Paesi verso la stabilità, prima ancora che verso la democrazia. La Siria rimane ad oggi il capitolo più incerto e più doloroso del processo di risveglio civile nel mondo arabo. Sul terreno non si confrontano soltanto l’esercito di Assad e le milizie, variegate e divise, dei ribelli. Quella siriana è diventata in questi mesi sempre più una “guerra per procura”, dove ciascun attore ha una propria agenda e fa leva sul sentimento di affiliazione ai molti gruppi religiosi che in Siria da sempre convivono.

L’Iran è un convinto sostenitore del regime di Assad, che finanzia con armi e milizie, in virtù di una storica prossimità degli alawiti (la componente religiosa dell’Islam cui Assad appartiene) con gli sciiti iraniani. Il fronte dei ribelli è finanziato e supportato militarmente dai due campioni dell’Islam sunnita, l’altra grande famiglia religiosa dell’area: Arabia Saudita e Qatar vogliono una Siria senza Assad, nella quale la maggioranza sunnita possa avere la meglio. La vicina Turchia teme che la Siria possa contagiare anche la sua già incandescente frontiera, dove le minoranze curde sono da sempre in armi contro l’esercito di Ankara. Israele ha avuto storicamente in Assad un nemico “necessario”, capace di tenere sotto controllo il Paese e di evitare spinte alla disintegrazione che colpirebbero inevitabilmente anche lo Stato ebraico. Il pericolo di un contagio regionale si avverte però soprattutto guardando al Libano, dove in questi giorni si è riacceso lo scontro tra le diverse fazioni religiose. Il Paese dei Cedri è alla ricerca da decenni di una propria stabilità, schiacciata da gruppi politico – religiosi armati come Hezbollah, molto vicino all’Iran e al regime di Assad.

Nelle maglie di questa intricata trama si inseriscono gruppi estremisti e religiosi combattenti, già addestrati sui campi di battaglia in Libia, in Iraq e in Mali e che oggi combattono in Siria con lo scopo di far prevalere la loro affiliazione alla rete internazionale del terrorismo.

Sullo sfondo, ci sono gli interessi delle grandi potenze. A cominciare dalla Russia, che vede nella caduta di Assad un pericolo per i propri interessi geopolitici in tutto il Medio Oriente. Mosca fornisce da sempre armi e energia alla Siria ed ha installato a Tartus, sulla costa siriana, la sua principale base navale nel Mediterraneo. Gli Stati Uniti hanno assunto una condotta di politica estera molto diversa dal passato. Già con l’intervento in Libia, Washington ha chiarito che non si impegnerà più in guerre su larga scala, che sono troppo costose in termini di bilancio pubblico e di vite umane.

Nei giorni più caldi del conflitto libico, l’America ha fornito supporto e armi ai ribelli della Cirenaica e appoggio logistico e strategico agli aerei francesi, olandesi, inglesi e italiani impegnati nelle operazioni militari. Questa strategia del “guidare da dietro” è ancora più evidente in Siria. Obama ha più volte ribadito la sua totale cautela su quel fronte, per il pericolo che le armi fornite ai ribelli possano cadere nella mani sbagliate, quelle dei gruppi terroristici legati ad al-Qaeda.
Oggi è sicuramente troppo tardi per intervenire militarmente e troppo presto per immaginare una soluzione diplomatica rapida.

Le formazioni dei ribelli sono estremamente divise al proprio interno, non dispongono di una rappresentanza politica e militare unitaria. Assad punta a mantenere il controllo dell’area a maggioranza alawita del Paese, presidiando la capitale Damasco e le aree sulla costa. Gli interessi strategici sono tanti e tali che difficilmente si potrà decidere per un intervento internazionale. Non resta quindi che una de-escalation del conflitto verso il binario diplomatico, quello che le parti in causa proveranno a percorrere a Ginevra ma che rischia di essere un binario morto.
Il tempo è scaduto, soprattutto per la drammatica emergenza umanitaria che ormai si propaga per tutta la regione.

I numeri di questa guerra sono davvero impressionanti: un milione e mezzo di rifugiati, più di quattro milioni di sfollati, quasi sette milioni di persone colpite in vario modo dal conflitto. A farne le spese, come sempre capita nei conflitti, soprattutto i bambini. Più di tre milioni stanno soffrendo le conseguenze e gli effetti della guerra siriana, che segnerà per sempre le loro vite.

L’Unicef  ha dispiegato in quell’area un impegno senza precedenti. Le dimensioni regionali dell’emergenza hanno imposto un intervento su più fronti e un’attività che spazia dall’assistenza per la fornitura di acqua potabile e cibo fino alla protezione dei bambini più vulnerabili e all’istruzione. I campi attrezzati per ospitare i profughi siriani in Giordania, Turchia, Libano e Iraq forniscono un’assistenza costante ai bambini e alle famiglie che fuggono dalla guerra. Ma il loro numero aumenta di giorno in giorno.

Le possibilità d’intervento in territorio siriano restano limitate dalle condizioni di sicurezza, dalle difficoltà di movimento e anche dalla mancanza di carburante. L’Unicef cerca in ogni modo di raggiungere le popolazioni più a rischio, anche attraverso il supporto a team medici di emergenza nelle aree dove i combattimenti sono più aspri.

I tempi della diplomazia sono necessari ma non più compatibili con la portata dell’emergenza umanitaria. Occorre quindi che la comunità internazionale nel suo complesso, inclusi quei paesi che dimostrano prudenza e perplessità sull’ipotesi di un allontanamento di Assad dalla Siria, si attivino per uno sforzo maggiore. Non è solo in gioco la vita di milioni di esseri umani e di più di tre milioni di bambini ma anche il pericolo che il conflitto si allarghi a macchia d’olio nei prossimi mesi in tutta la regione, trascinando con sé dinamiche e forze ben più distruttive.

In passato, di fronte a emergenze drammatiche come quella determinata dalla guerra in Bosnia Erzegovina, la comunità internazionale ha saputo trovare uno scatto di impegno e di lucidità, mettendo in campo le migliori risorse ed energie per arrivare ad un accordo di pace tra le parti e soprattutto mettere fine ai massacri delle popolazioni civili. La mobilitazione di chi ha voluto sostenere, tra i governi ma anche tra i semplici cittadini, l’attività delle organizzazioni umanitarie è stata un elemento fondamentale per raggiungere quel risultato. Oggi i Balcani sono pronti ad una prossima integrazione in Europa e stanno trovando quelle condizioni di stabilità e pace che sono un prerequisito anche per la crescita e la prosperità. Purtroppo non altrettanto si può dire che stia accadendo per la Siria. Troppe incertezze, troppi ritardi, troppe divisioni e troppa indifferenza. Il conflitto siriano rischia non solo di deflagrare ma anche di umiliare il ruolo degli Stati e l’impegno di ciascuno di noi a fare di più e meglio perché non un bambino debba più morire.

Andrea Iacomini è portavoce dell’Unicef Italia

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