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Le riforme tra saggi e seggi

L’orientamento del governo Letta in tema di riforme costituzionali ha tenuto conto di due vicende: da un lato la riflessione culturale sul tema delle riforme medesime, e dall’altro i dibattiti tra le forze politiche che non hanno ancora trovato un punto definitivo di approdo.

Vi è infatti la percezione che la riflessione storico-culturale sull’insieme delle riforme si sia svolta prevalentemente in ambito accademico, laddove le decisioni politiche hanno come sede naturale le aule parlamentari.

Due fasi, un unico processo

Si è pertanto in presenza di due modi diversi di affrontare la questione delle riforme costituzionali.

In sede accademica infatti il dibattito si è venuto svolgendo prevalentemente sull’onda della libertà di ricerca. In sede parlamentare, al contrario, il dibattito ha finito col tener conto anche della disciplina di partito, senza giungere peraltro a decisioni definitive né sul numero dei parlamentari, né sulla ristrutturazione del sistema bicamerale, né sulla forma di governo.

Se si vuole pertanto distinguere il pensiero sulle riforme dalle decisioni di riforme, si finisce con l’essere di fronte alla distinzione tra “saggi” e “seggi”, nel senso che la funzione dei primi inerisce alla libertà di pensiero, laddove quella dei secondi può essere influenzata anche dalla disciplina di partito.

È inoltre vero che nella comune esperienza parlamentare spesso le commissioni parlamentari fanno ricorso ad attività di consulenza tecnica, ogni volta che esse hanno bisogno di una specifica consulenza da parte di “esperti”, oggi un pò semplicisticamente definiti “saggi”.

Una procedura non inusuale

Il governo Letta ha pertanto ritenuto di distinguere, anche in modo formale, l’attività dei “saggi” da quella dei “seggi”.

Questa distinzione tra la funzione del pensiero libero e l’attività di decisione politico-istituzionale è pertanto alla base del modo di procedere che il governo ha ritenuto necessario per condurre a termine la complessa vicenda degli adeguamenti costituzionali, che tutte le forze politiche hanno peraltro affermato essere necessari.

Ne consegue che gli esperti non possono in alcun modo sostituire i parlamentari.

Ne scaturisce una sorta di convoglio nel quale ai primi spetta l’inizio dell’attività riformatrice, mentre ai secondi spetta il potere di decisione, rimesso poi alle conclusioni degli organi parlamentari chiamati a deliberare in via definitiva, e non soltanto a discutere sulle diverse ipotesi considerate.

Si è dunque in presenza di una procedura formalmente diversa da quella prevista per le modifiche della Costituzione, ma per nulla in conflitto con la stessa.

Se davvero si vogliono decisioni conclusive e non più soltanto dibattiti inconcludenti, le procedure suggerite dal governo appaiono pertanto le più funzionali.

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