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Noi, italoamericani. Ecco come miglioriamo i rapporti Usa-Italia

Incontriamo John Viola a Washington, nella sede della Niaf. E’ da poco il nuovo presidente della più importante istituzione che rappresenta gli italoamericani; ha 29 anni, e ci dimostra inequivocabilmente quanto bene faccia al dna italiano l’ambiente americano.

John, è una piacevole sorpresa per noi italiani vedere un così giovane presidente. Qual è la sua storia?
Ottengo la stessa reazione ogni volta che qualcuno viene a trovarmi dall’Italia. Vengo da una tradizionale famiglia italoamericana: sono nato nella casa popolare a Brooklyn dove è nato mio padre e dove nacque il padre di mia madre. Le famiglie di entrambi i miei genitori venivano dall’Italia.
Mi sono laureato alla Fordham University e sono membro di Niaf da quando avevo quindici anni. Un paio di anni fa, quando iniziò un percorso di cambiamento, pensai di dare la mia disponibilità. Ho potuto spiegare al board che questa per me sarebbe stata una missione, non un lavoro, dando la mia visione di Niaf e della nostra comunità. Così sono stato nominato Chief Operating Officere poi qualche mese fa sono stato eletto presidente.

Com’è nata Niaf e quali attività portate avanti?
Niaf nacque nel 1975. Allora la comunità era a malapena rappresentata da gruppi locali, così un gruppo di italoamericani capì la necessità di una organizzazione centrale: eravamo divisi e sottorappresentati. Per esempio alla Fordham University nel 1970 gli studenti italoamericani erano circa il 60% del totale, ma i professori italoamericani erano solo 6. Niaf fu creata per dare una risposta a questo genere di situazioni, per dire che la comunità italoamericana stava prendendo coscienza e si stava unendo: non solo per la protezione della comunità come anti-diffamazione, ma anche per sostenere gli italoamericani da nominare nei posti che meritavano.
Abbiamo diverse attività. Prima di tutto ci sono le nostre borse di studio: vogliamo fare in modo che ai giovani italoamericani sia data la possibilità di beneficiare dei successi raggiunti dalla nostra comunità, offrendo poi loro anche stage e opportunità di lavoro. Abbiamo inoltre il nostro programma di viaggio intitolato all’Ambasciatore Peter F. Secchia, che finanzia giovani italoamericani che per la prima volta partono alla scoperta dell’Italia. Teniamo poi rapporti molto stretti con la delegazione italoamericana al Congresso, e ancora più importante, contribuiamo a mantenere stretti i rapporti tra Italia e Usa.

Che cosa significa per la comunità italoamericana una giovane leadership come la sua?
Significa che tutta la comunità sta evolvendo. Il mio obiettivo è di migliorare la collaborazione con gli altri gruppi italoamericani: è difficile, ma dobbiamo farlo. Come comunità, divisi non sopravvivremo: lei stesso dimostra con “We the Italians” quanto sia alto il numero dei gruppi esistenti. Noi siamo una comunità unica, con una forte partecipazione dal basso e una identità molto ben definita: 18 milioni di persone nel censimento hanno espressamente scritto che sono italoamericane.
Oggi però c’è necessità di un soggetto di portata nazionale che aggreghi. Nessuno dei miei amici si chiede se un altro amico faccia parte di Niaf, o di Osia o di Unico. Noi non vogliamo escludere gli altri gruppi, ma celebrare quello che fanno: però non dobbiamo sprecare denaro, tempo e risorse della comunità per fare tutti le stesse cose. Insieme possiamo fare molto di più. Pensiamo in termini di un gruppo etnico, sapere di essere una diaspora, i rami di un albero: dobbiamo smettere di guardare all’Italia come una penisola a forma di stivale di 60 milioni di abitanti che hanno creato comunità ovunque, e cominciare a pensare l’Italia come 200 milioni di persone in tutto il mondo, la maggior parte di loro consapevoli di essere italiani. Siamo in grado di fare affari insieme, scambiarci idee, se pensiamo a noi stessi così: siamo in molti paesi, parliamo diverse lingue, siamo al top in tutti i tipi di imprese e di industrie. E tutto questo mentre ancora ci sentiamo tutti profondamente italiani!

Perché pensa che l’amicizia tra Italia e Stati Uniti sia così forte, e che cosa si può fare per rafforzarla ulteriormente?
Una parte del merito va alla nostra comunità italoamericana. L’Italia è stata tra i più stretti alleati degli Usa dopo la guerra, un incomparabile alleato militare e un attivo partner commerciale: gli americani amano il Made in Italy. Tutto ciò anche perché per anni ci sono stati italiani che sono andati avanti e indietro, stimolando la contaminazione di idee. La nostra comunità ha fatto la sua parte: per esempio dopo la guerra, aiutando la democrazia in Italia, donando beni di ogni tipo, e spingendo per estendere il Piano Marshall anche all’Italia. Noi siamo qui per rappresentare il legame tra i due Paesi, e vogliamo essere percepiti come una preziosa parte che contribuisce a formare il popolo italiano. Se decine di milioni di persone si sono trasferite all’estero, l’Italia ha perso un intero segmento di popolazione. Noi siamo i figli di quel segmento, e sentiamo che l’Italia ridiventa una se ci riuniamo a coloro che in Italia sono rimasti.

Intervista a cura di Umberto Mucci, rappresentante in Italia dell’Italian American Museum e Presidente di We the Italians

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