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Siria, cosa rischia Obama nel dare armi ai ribelli

Le prove dell’uso di armi chimiche da parte dell’esercito regolare siriano sono praticamente certe. La linea rossa è stata superata: Obama farà qualcosa. Ma cosa?

Ebbene, spedirà armi leggere – la quantità ancora non è chiara – ai rappresentanti dell’Esercito Libero Siriano, i quali avranno l’incarico di distribuirle solo alle forze “laiche” o “moderate” che lo compongono facendo attenzione che non cadano invece nelle mani sbagliate, come quelle dei fondamentalisti di al-Nusra.

Gli effetti dell’arrivo di armi americane

Ma cosa potrebbe comportare per il conflitto siriano ed il suo evolversi la decisione di Barack Obama? Innanzi tutto l’arrivo di armi americane – ed è plausibile che seguano anche quelle europee dopo la fine dell’embargo di Bruxelles sugli armamenti ai ribelli siriani di qualche settimana fa – alzerebbe il livello dello scontro indiretto fra Russia (e, in parte, Cina) e Stati Uniti (e, in parte, Europa). Oltre a supportare le due fazioni opposte nel conflitto, infatti, le due grandi potenze avrebbero da questo momento i propri armamenti utilizzati in battaglia gli uni contro gli altri. Niente di seriamente significativo dal punto di vista delle relazioni diplomatiche, già da tempo non più idilliache come nei primi anni Novanta, ma certamente un avvenimento in grado di risvegliare ricordi e timori ancestrali da Guerra Fredda.

Lo scontro Usa-Russia

Non solo. Oltre ad alzare l’asticella dello scontro diplomatico con la Russia, l’invio di armi leggere che l’amministrazione americana si appresterebbe a fare nasconde un altro rischio, probabilmente ancor più grave sia per la credibilità della diplomazia americana, sia soprattutto per l’evolversi del conflitto siriano: non servire a niente.

I rischi per Obama

Fosse iniziato un anno fa, un significativo afflusso di armamenti leggeri sarebbe ancora servito probabilmente a cambiare gli equilibri in campo non solo fra regime e opposizione, ma anche all’interno di quest’ultima, fra moderati e fondamentalisti. Ma un anno più tardi le cose sono molto cambiate. Il regime durante tutto questo periodo è stato ampiamente e pesantemente rifornito di armamenti dai russi e dagli iraniani, mentre sul campo Hezbollah e l’Iran hanno scelto apertamente di impegnare a fondo le loro forze militari a fianco dell’alleato Bashar al-Assad. Migliaia di uomini sono affluiti dai territori libanesi controllati dal “Partito di Dio”, mentre alcuni reparti dei Guardiani della Rivoluzione – di cui secondo alcuni report l’ultimo dovrebbe arrivare in questi giorni – agiscono ormai apertamente sul territorio siriano.

La lotta governo-ribelli

Le forze ribelli sono state messe in rotta dopo una sanguinosa battaglia nella cittadina strategica di Qusayr, e le forze governative hanno nel frattempo accerchiato Aleppo preparandosi per un’offensiva ancora più violenta contro le parti della città controllate dall’opposizione. Una nuova sconfitta potrebbe risultare fatale per le speranze dell’opposizione che si vedrebbe confinata fuori dai centri urbani principali, costretta a continue azioni di guerriglia che difficilmente le farebbero recuperare le posizioni strategiche perdute.

Gli interrogativi

Ma può l’afflusso di armi leggere promesso dall’America cambiare la situazione sul campo e impedire ad un tale scenario di avverarsi? Possono queste armi contrastare un esercito moderno dotato di artiglieria, mezzi corazzati e aeronautica che ha ricevuto notevoli rinforzi nell’ultimo anno sia in armamenti che in uomini addestrati? Come può immaginare chiunque con qualche nozione di strategia militare, la risposta è no. Certo, l’impatto dell’annuncio potrebbe avere un buon effetto psicologico sui ribelli, mentre dall’altra parte il regime potrebbe modificare i propri piani – come pare stia già facendo con l’anticipo dell’offensiva su Aleppo – per impedire l’avverarsi di “sorprese” causate dalla possibile presenza di nuovi armamenti nelle mani dei suoi avversari. Ma a parte questo, queste armi non serviranno a molto altro.

I perché dell’intervento della Casa Bianca

E allora perché Obama ha fatto questo annuncio? Perché ha scelto questa opzione invece di mandare armi anti-carro oppure anti aeree, o di impegnarsi in una no-fly zone a protezione del nord del paese? La risposta è, purtroppo, piuttosto semplice: fare qualcosa per non fare niente.
Sulla diplomazia delle “linee rosse” è già stata fatta molta ironia in questi mesi. “Macchiavelli traccerebbe delle linee rosse?” si chiedeva un mese e mezzo fa Rosa Brooks su Foreign Policy ironizzando sull’enorme quantità di linee rosse poste, e sempre disattese, dalle ultime amministrazioni americane nei più vari scenari internazionali.

I rischi per gli Usa

Ormai quest’espressione è diventata semplicemente un espediente retorico per prendere tempo, e per continuare a non fare qualcosa che, semplicemente, si è scelto di non fare. Obama da tempo ha in mente i rischi di un eccessivo impegno militare e diplomatico in Siria. Una no-fly zone potrebbe risultare potenzialmente molto pericolosa date le armi anti-aree in possesso di Assad, mentre l’invio di armi pesanti e artiglieria potrebbe rinforzare i reparti fondamentalisti dell’esercito ribelle, minacciando così gli alleati americani nella regione – dicasi Giordania, Iraq e soprattutto Israele – e indirettamente gli Stati Uniti stessi.

Chi blocca Obama

Ma soprattutto Barack Obama sa che a non volere un impegno in Siria sono gli americani stessi, stanchi di infinite missioni in Medio Oriente, spesso conclusesi senza reali apparenti vantaggi per l’America. È quindi soprattutto l’opinione pubblica che blocca il presidente, il quale ha cercato in questi anni di apparire come il leader del disimpegno militare e delle soluzioni diplomatiche, e che non vuole tradire questa sua immagine. Ma come gli ha ricordato in un recente intervento qualcuno che di mancati interventi se ne intende, ovvero l’amico e predecessore Bill Clinton che ne 1994 rifiutò di inviare forze che bloccassero il genocidio in Rwuanda: “Se ti rifiuti di agire e causi una calamità, dopo non puoi presentarti davanti all’opinione pubblica infuriata dicendo – Oh Mio Dio, ma due anni fa c’era un sondaggio che mi diceva che l’ottanta percento di voi era contrario all’intervento!”

Eugenio Dacrema è ricercatore dell’Ispi

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