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Cosa aspettarci da Papa Francesco. Intervista a padre Antonio Spadaro

L’improvvisa rinuncia di Benedetto XVI, lo stupore di un gesuita nel sentire dalla voce del protodiacono, Jean-Louis Tauran, che dopo il teologo bavarese a guidare la chiesa sarebbe stato un gesuita argentino. “Da Benedetto a Francesco. Cronaca di una successione al Pontificato” (Lindau, pp. 136, 13 euro) è l’ultimo libro di padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica (da pochi mesi rinnovata nel look) e membro della Compagnia di Gesù.

In un colloquio con Formiche.net ripercorre quei giorni dello scorso inverno, tra l’interregno e l’elezione di Francesco, e ci aiuta a capire cosa dobbiamo aspettarci dal Pontefice venuto “quasi dalla fine del mondo”. Tra omelie a Santa Marta, riforme della curia che si stagliano anche nel discorso tenuto ieri e l’enciclica a 4 mani con Ratzinger.

Nelle prime pagine del libro, racconta la sua sorpresa nell’apprendere che un Gesuita era diventato Papa. Scrive di non aver mai considerato possibile un tale avvenimento. Perché?
Come gesuita ammetto che non avrei mai immaginato l’elezione di un gesuita al Pontificato. La Compagnia di Gesù si sente, direi, geneticamente nata per essere al servizio del Papa. Insieme alla gioia, il fatto che uno di noi sia stato eletto Pontefice ha richiesto, almeno per quel che mi riguarda, un’elaborazione interiore. Andando più nel profondo, si può dire che Ignazio ci ha voluti legati con un “quarto voto” al servizio del Papa perché è il Papa ad avere la visione più universale sulla Chiesa. E nel momento in cui un gesuita viene eletto Pontefice, questi serve la Chiesa nella sua missione più spirituale e globale. E’ stata questa la conclusione a cui sono giunto.

Ha destato molto interesse l’insistere di Bergoglio sul tema delle periferie, delle frontiere. Eppure, come lei scrive, già a Buenos Aires aveva impostato un progetto missionario incentrato sulla comunione e sull’evangelizzazione. Niente di nuovo, dunque?
La dimensione missionaria è la dimensione radicale propria della Compagnia. Tutti i gesuiti si pensano “in missione”. Papa Bergoglio legge questa dimensione non solo da un punto di vista geografico, ma soprattutto in chiave sociale. L’interpretazione specifica dello stare alle frontiere non è quella di assimilarle, ma di essere presenti lì, quindi di uscire da se stessi. D’altronde, già da arcivescovo di Buenos Aires lui più volte ha sottolineato il pericolo dell’autorefenzialità.

Un altro raffronto che spesso si sente fare è quello tra il Papa teologo e il Papa pastore. Lei scrive che quella di Bergoglio è una “teologia in azione”. In cosa consiste?
Non è improvvisazione. C’è una comprensione profonda non puramente accademica della teologia in quanto tale che accomuna Francesco e Benedetto: la teologia è legata strettamente alla vita di fede. Posto questo, ogni Papa è diverso l’uno dall’altro. I paragoni rischiano di dar luogo a fraintendimenti, di non essere adatti. Francesco e Benedetto hanno avuto una formazione molto diversa, così come diversi sono i mondi e le sensibilità che incarnano. Uno è il pastore di formazione accademico, cresciuto nella Mittleuropa, l’altro è uomo di grandi capacità pastorali e di governo in America Latina. Il nesso di congiunzione tra i due sta nel discorso con cui Benedetto XVI ha rinunciato al Pontificato: il Papa oggi emerito ha rimarcato la necessità di avere vigore fisico e spirituale, di rispondere alle grandi sfide e ai cambiamenti nella società. Sembra che Bergoglio abbia raccolto il testimone più che essere semplicemente succeduto a Ratzinger.

Il suo libro vuole sottolineare già dal titolo “Da Benedetto a Francesco” la continuità tra i due papi. Non a caso, ricorda l’ultima udienza di Benedetto XVI, il 27 febbraio. Sagrato pieno, striscioni ovunque, applausi. E il Papa che commentava “la chiesa è viva”. Uno stato di salute confermato in questi primi mesi con il Pontifce argentino. La chiesa, nonostante tutto, si mantiene viva?
L’idea della vivacità della chiesa è stata molto presente nelle ultime settimane dopo la rinuncia di Papa Ratzinger. E’ stata esplicitata in maniera forte da Benedetto XVI ed è stata poi realizzata con particolare intensità durante questi primi mesi del Pontificato di Francesco. La Chiesa, nonostante tutti i problemi, si dimostra molto viva.

Per mesi si è detto che Bergoglio è stato eletto soprattutto per riformare la curia, che quella è la missione principale che i cardinali gli hanno affidato. Francesco davvero rivoluzionerà la curia, lo stile di governo?
Per rispondere alla domanda, abbiamo a disposizione un unico elemento: il passato di Bergoglio. Lui è sempre stato un pastore vicino alla gente e contemporaneamente un uomo di governo. Lo è stato come provinciale della Compagnia di Gesù in Argentina, poi come vescovo di Buenos Aires (prima ausiliare) e presidente della locale Conferenza episcopale. Possiamo quindi tranquillamente dire che è una persona di governo, che ha idee molto chiare e le porta avanti. Non solo ha le idee chiare, ma se le forma. Ascolta molto prima di agire. A tal proposito mi piace citare spesso il discorso tenuto da Papa Francesco il 31 maggio scorso, a conclusione del mese mariano. Il Pontefice ha parlato di Maria e delle tre sue attitudini: ascolto (delle parole e dei fatti), decisione, azione. A parte che questi elementi corrispondono ai pilastri della pedagogia ignaziana (esperienza, riflessione, azione), corrispondono soprattutto al suo modo di agire. Solo dopo l’ascolto, arriva l’azione. Papa Bergoglio non è affatto un idealista né una persona avventata.

Si parla molto di collegialità e sinodalità. Il Papa che nomina un gruppo di consiglieri, che crea ex novo una commissione pontificia incaricata di indagare sulle attività dello Ior. Ma alla fine, chi decide è sempre lui?
Papa Francesco forse fa tesoro anche dell’esperienza precedente nella Compagnia di Gesù. Ogni superiore gesuita decide immediatamente, senza regole di maggioranza e di minoranza. Tuttavia ogni superiore ha un gruppo di consultori, uomini che sanno di poter parlare liberamente perché sanno che alla fine lui decide dopo aver vissuto una esperienza di profondo ascolto. Parlerei inoltre di collegialità effettiva ma anche affettiva.

Lo stile di Francesco ha impressionato: lo stare in mezzo alla gente, ricercando continuamente il contatto umano; scendere dalla jeep in piazza, dire di voler uscire per andare a confessare. E’ improvvisato?
Qualcuno si ferma alla dimensione esteriore del gesto, sbagliando. I gesti di Papa Francesco non sono di sterile simpatia, di effetto mediatico. Hanno invece un alto valore, molto più profondo di quanto possa apparire superficialmente. Contengono un forte messaggio che è da discernere.

A metà giugno la comunità della Civiltà Cattolica è stata ricevuta dal Papa. Cosa l’ha colpita di più, in quell’incontro?
Già dal momento di udienza privata avuto prima dell’incontro con gli altri, ho potuto constatare come il Papa sia una persona capace di mettere a proprio agio chi ha davanti a sé. Non si avverte la distanza, nonostante si percepisca la sua autorevolezza profonda. Anche in questa circostanza ho constatato la sua forte capacità di ascolto. Delle cose che ha detto, ha insistito molto sulla frontiera che noi gesuiti della Civiltà Cattolica dobbiamo abitare. Francesco ha ribadito che le frontiere vanno vissute e comprese, mai assimilate. Di nuovo, dunque, l’invito a uscire.

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