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La (buona) lobby delle no-profit tricolori

La buona notizia è che il terzo settore fa sistema (o, se preferite, lobby) e surclassa imprese e pubbliche amministrazioni.

L’Istat mercoledì ha presentato l’ultimo censimento sull’impresa, le PA e, appunto, il no-profit. Un lavoro imponente e una marea di dati. Mi limito a citarne alcuni, i più interessanti (Qui un mio breve articolo su Italia Oggi in cui commento il rapporto):

una crescita di volume del 28% in 10 anni. Significa quasi 3 punti percentuali l’anno. A confronto le imprese e le PA fanno sorridere. Le prime aumentano, ma soltanto dell’8%. Le seconde addirittura diminuiscono. La falce del risparmio della spesa ne ha portato via il 22% (e con loro lavoratori e servizi resi ai cittadini).

danno lavoro a un esercito di 5,7 milioni di cittadini. Ovviamente non sono tutti stipendiati e a tempo indeterminato. Anzi, l’80% è composto da volontari (il che non significa necessariamente “a titolo gratuito”). Ma in questi ultimi 10 anni hanno aumentato la forza lavoro del 39,3%. Se nel 2001 impiegavano mediamente 12 risorse, oggi sono salite a 16. Moltissimi sono giovani.

Sono più di 300mila, ben distribuite sul territorio. Il primato spetta al nord, che ha 65 enti ogni 10mila abitanti. Segue il Meridione (con il 26,3% del totale) e il Centro.

si occupano di tutto, a 360 gradi. La punta di diamante è rappresentata da sport e cultura (qui il terzo settore fa molto meglio di Pa e imprese, che sono in numero decisamente inferiore). Ma vanno bene anche la ricerca, il sociale, la sanità e naturalmente la filantropia.

Tutte ottime notizie che renderanno felici i tanti lavoratori del no profit. E la brutta notizia? Non c’è, o almeno non è così immediata, nascosta dal buon risultato portato a casa. A voler essere pignoli si può dire che, nonostante i numeri e la capacità di incidere con forza sul sociale, la buona lobby del terzo settore fatica ancora un po’ a farsi riconoscere dalle istituzioni. Paradossalmente sono meno bravi di tanti altri, che contano molto meno, a fare pressione.

L’esempio più eclatante viene proprio dalla voce finanziamenti. Che provengono prevalentemente dai privati. Il che, forse, è anche logico, dal momento che è nelle corde del settore racimolare fondi attraverso le donazioni. Secondo i dati dell’Assif (l’associazione dei fundraiser) nel 2012 il 40% delle associazioni no-profit italiane ha dichiarato di aver ricevuto donazioni in linea con quelle dell’anno precedente. Tradotto, significa che lo “zoccolo duro” della beneficenza ha tenuto botta alla crisi. E questo è successo perché sono aumentati i flussi di donazioni (+6,8% dal 2008 secondo Unicredit-Ipso) e l’autofinanziamento degli associati (+6,4%).

In questo modo si è contenuta la contrazione del 4,6% che ha colpito i trasferimenti pubblici a favore delle no-profit, segno appunto di una capacità di pressione non particolarmente brillante (nello stesso periodo di tempi i soldi ai partiti non sono stati nemmeno scalfiti).

In conclusione, il terzo settore italiano ha di che festeggiare per il successo che porta a casa. Da qui al prossimo censimento dovrebbe investire di più sulla capacità di rappresentanza presso le sedi istituzionali. Sarebbe la quadratura del cerchio

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