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Finanziamento pubblico ai partiti: il gioco delle tre carte e due parole

Questo commento è stato pubblicato ieri su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi.

Gli invisibili fautori del finanziamento pubblico ai partiti, che sono molti anche se non si vedono, e tutti orbitanti in prevalenza nel pianeta della politica, di solito ricorrono a due argomenti per sostenere la prassi insostenibile. “In tutto il mondo lo Stato contribuisce al mantenimento dei partiti”, è la tesi numero uno. La seconda suona ancora più insidiosa: “Il “no” degli italiani all’utilizzo di denaro pubblico è frutto dell’emotività e della demagogia”.

In realtà la prima obiezione non obietta un bel nulla. E’ vero che nei principali Paesi d’Europa e d’America esistono forme di sostegno alla politica e di rimborso elettorale. Ma, a parte che le formule, spesso miste, di finanziamenti pubblici e privati variano da una nazione all’altra -negli Stati Uniti, per esempio, sono gli stessi candidati-presidenti a rifiutare la possibilità d’usare fondi pubblici-, da nessuna parte succede che quel denaro venga speso per fini personali, con documentazione risibile (quando c’è) e incassato in proporzione a volte persino superiore alle esigenze per le quali era stato previsto.

Altrove i soldi pubblici ai partiti vengono usati nei limiti e all’insegna della trasparenza assoluta sempre verificabile che la democrazia richiede. E anche se i politici di casa nostra ora scottati dall’indignazione dei cittadini giurano che “non lo faranno più” di comportarsi così male, o che esibiranno ogni rendiconto di quanto avranno ricevuto, gli italiani hanno il diritto di non credere più alla favola, visto l’indecente e trasversale fenomeno di pessima amministrazione dei nostri soldi sia a livello nazionale che regionale. Parlano da sole le inchieste della magistratura, le denunce della Corte dei conti, gli scandali troppe volte riferiti dalla stampa.

Poi c’è la seconda accusa: la reazione anti-casta dei più sarebbe figlia di pregiudizi all’ingrosso e della nefasta influenza dell’”anti-politica” sulla società civile diventata, di colpo, incivile. Ma stiamo ai fatti.
La legge che ha introdotto il finanziamento pubblico è di quasi quarant’anni fa: 1974. Quattro anni dopo i radicali promossero un primo e oggi dimenticato referendum per abolire i soldi ai partiti. Lo promossero e lo persero: il 56,4 per cento dei cittadini stabilì che fosse giusto che lo Stato contribuisse al mantenimento dei partiti. Allora soltanto il 43,6 votò “sì” all’abrogazione. E alle urne andò l’81,2 per cento del corpo elettorale. Dunque, una scelta popolare e responsabile. Che rende ancor più affidabile e legittimo il rovesciamento, a ragion veduta, del giudizio dei cittadini nel successivo e analogo referendum del 1993. Quando i votanti raggiunsero ancora una quota altissima -il 77 per cento degli aventi diritto- e l’abolizione fu decretata da una percentuale plebiscitaria: il 90,3 per cento degli italiani (appena il 9,7 per cento si pronunciò a favore del finanziamento).

Violando l’esito del referendum, i partiti hanno fatto il gioco delle tre carte e due parole, chiamando “rimborso” il bocciato “finanziamento” e continuando, così, a prendere soldi alla faccia dei cittadini.
Perciò, vent’anni dopo, la discussione non è più se sia giusto o sbagliato, e in che termini, elargire denaro pubblico alla politica. Oggi il governo e il Parlamento hanno solo il dovere di far rispettare, finalmente, il verdetto sovrano e consapevole del popolo italiano. Che nel 1978 aveva detto “no”, e nel 1993 ha detto “sì” (all’abrogazione). Aver cambiato idea in modo così partecipe e compatto, è un atto di grande intelligenza politica. Anche la nostra intelligenza, e non solo volontà, il legislatore è chiamato a non offendere, per la seconda volta.

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