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Il rame afgano che fa gola alla Cina legato a cavilli contrattuali

I cinesi vogliono ricontrattare gli accordi con l’Afghanistan per lo sfruttamento del giacimento di rame di Mes Aynak. L’attuale contratto lega il consorzio statale China Metallurgical Group Corporation ad adempimenti in termini di infrastrutture e investimenti che ora si vorrebbero rivedere, ha spiegato il ministro afgano per le Miniere, Wahidullah Shahrania colloquio con l’emittente ToloNews. Gli investimenti riguardano tra gli altri una centrale elettrica per fornire energia alle miniere e una linea ferroviaria che colleghi Torkham, al confine con il Pakistan fino al valico di Shir Khan, alla frontiera con il Tagikistan o a Hairatan, verso il confine con l’Uzbekistan.

Inoltre è previsto che al governo afgano spettino 800 milioni di dollari, cifra che i cinesi vorrebbero rivedere al ribasso.

Il giacimento di Mes Aynak, nella provincia orientale di Logar, è ritenuto uno dei più grandi ancora inesplorati al mondo. L’accordo tra Kabul, la CMGC e la Jiangxi Cooper Company fu siglato nel 2007. Agli afgani andavano 3 miliardi di dollari, alle società cinesi il diritto di sfruttamento per trent’anni. I secondi ci mettono i soldi, i primi garantiscono la sicurezza, tema centrale nel Paese da cui nel 2014 se ne andranno le truppe combattenti internazionali.

Come ricordava Giuliano Battiston in un reportage per Alias, inserto culturale del manifesto, pubblicato lo scorso giugno: la zona è diventata una delle più protette del Paese, quasi più del quartiere delle ambasciate di Kabul.

Il motivo è presto spiegato: l’economia afgana dipende per quasi il 90 percento dagli aiuti stranieri e il settore minerario è visto come una garanzia per il futuro. Lo sfruttamento delle miniere, e il secondo più importante progetto privato della storia afgana, mettono tuttavia in pericolo l’altra ricchezza dell’area: il patrimonio archeologico.

A fine luglio Deutsche Welle dava conto degli scricchiolii nell’intesa. “Il governo afgano non è soddisfatto del modo in cui i cinesi stanno tenendo fede al contratto”, ha spiegato Zarhona Rassa, dell’ Extractive Industries Transparency Initiative (EITI), citato dal sito tedesco.

Lo stesso vale per i cinesi che, spiega l’organizzazione afgana Integrity Watch Afghanistan, stanno prendendo tempo servendosi come scusa della tutela dei templi buddhisti e del patrimonio archeologico per arrivare alle trattative. Incontri in corso con il ministro Shahrani che a settembre sarà a Pechino.

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