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Perché a Berlusconi convengono i servizi sociali

Grazie all’autorizzazione dell’editore e dell’autore, pubblichiamo il commento di Riccardo Ruggeri, saggista, editore ed ex top manager del gruppo Fiat, apparso sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi.

Per chi studia le dinamiche del potere e i comportamenti organizzativi dei leader, specie senza alcun coinvolgimento personale, questo è un momento intellettualmente stimolante. Il confronto fra le due fazioni, entrambe supportate da media fradici di reciproco livore, avviene senza esclusione di colpi.

La vicenda Berlusconi, in questi ultimi anni, mai ha assunto una dimensione configurabile come lotta politica, piuttosto come rissa da saloon. Mi ricorda quei film western, ove le due fazioni cittadine cominciano a scazzottarsi: all’inizio sono quattro gatti, d’improvviso gli altri avventori, un centinaio, senza nulla sapere si buttano nella mischia, menando per il gusto di menare, e finiscono tutti pesti.

Per me il «Berlusconi prigioniero» è la conclusione ovvia di un percorso durato vent’anni, quando questo milanese bauscia, forse per motivi di opportunità personal-aziendale, decise di buttarsi in politica. L’immediata analisi che su di lui fa l’establishment è sintetizzata nella frase di uno dei capi bastone d’allora, che ci fa percepire il miserabile cinismo di questa genìa salottiera: «Se vince lui, vinciamo noi, se perde, perde solo lui». Così è andata, ma costoro non avevano valutato che lui voleva essere capo bastone come loro, non avere solo lo stesso sarto e le stesse Marinella blu a pois. Ora ha sì perso, ma non vuole ritirarsi in buon ordine, come secondo loro dovrebbe fare un fedele maggiordomo.

Nel frattempo, è intervenuta la magistratura che ha applicato la legge a fronte di reati che costui aveva compiuto, quindi lo ha giustamente condannato. Ma lui non vuole andare in galera o ai domiciliari o ai servizi sociali, non vuole chiedere la grazia, non accetta neppure la decadenza ritenendosi perseguitato. Sarebbe un insulto alla sua intelligenza credere che questa sia la sua strategia, mi pare piuttosto la sceneggiata di un giocatore di poker. Lui sta giocandosi la partita della vita, e lo fa proprio alla fine della vita (non si sottovaluti questo per lui drammatico aspetto), con lucido acume tattico-comunicazionale.

In questa partita lui è nella posizione «umanamente peggiore» (un piede lo ha già in galera, l’altro già fuori dal Senato), ma «intellettualmente ottimale». I suoi nemici hanno calato l’ultima carta, la sentenza della Cassazione, ora non possono fare più nulla, se non ripetere stancamente: «Le sentenze si rispettano». Invece a lui sono ancora concesse un paio di carte, per non parlare, se fosse il vero duro che dicono i suoi, disposto a pagare qualunque prezzo pur di non perdere, di giocare la carta suprema, il «jolly senza ritorno». I giornali si sono scatenati, prima e dopo la riunione dello stato maggiore forza italiota ad Arcore, a ipotizzare soluzioni. Anche se ci fosse stata la diretta non sapremmo nulla, un vero leader ascolta tutti, figli compresi, ma decide in solitudine.

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