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Cina, lotta di potere all’ombra del petrolio

Una “tigre”, come sono definiti gli alti funzionari cinesi indagati per corruzione, è finita in trappola. Jiang Jiemin (nella foto), l’uomo a capo della Commissione che sovrintende le grandi imprese di Stato, è sotto inchiesta per una “serie violazioni disciplinari” in riferimento agli anni in cui era vice direttore del giacimento petrolifero di Shengli nello Shandong.

Primo componente del Comitato centrale uscito dal congresso del Partito comunista cinese (Pcc) dello scorso novembre a cadere nella rete della campagna di “pulizia interna” lanciata dal presidente Xi Jinping, Jiang è anche esponente di quella “fazione del petrolio” che oggi appare sotto attacco e la cui sorte si incrocia con quella del deposto componente del passato Politburo, Bo Xilai, in attesa di verdetto nel processo in cui è imputato per tangenti, appropriazione indebita e abuso di potere. Lui stesso dovette coprire una vicenda riguardante la morte del figlio di un alleato dell’ex presidente Hu Jintao, coinvolto in un incidente stradale che l’anno scorso generò diverse speculazioni legate allo scoppio del caso Bo.

Prima di essere nominato al vertice della Sasac lo scorso marzo, incarico che gli dava un ruolo ministeriale, il 58enne Jiang è stato a lungo presidente della China National Petroleum Corporation (CNPC). Una carriera costruita all’ombra di Zhou Yongkang, ex zar della sicurezza e del petrolio finito sotto indagine per le ricchezze accumulate durante gli anni al potere nella provincia del Sichuan e nella CNPC. È quanto aveva riferito venerdì il South China Morning Post di Hong Kong. Una notizia che se dovesse trovare conferma – già oggi sono circolate voci sulla sua detenzione ai domiciliari – potrebbe far impallidire il processo del secolo contro Bo, di cui Zhou era considerato il protettore all’interno del passato comitato permanente del Politburo del Pcc.

“L’annuncio indica un’accelerazione nella campagna contro la corruzione”, spiega una nota di Nomura Holdings, secondo cui le indagini contro Jiang, “dimostrano come la nuova leadership stia rafforzando la propria autorità, condizione necessaria per portare avanti riforme strutturali”.

La caduta di Jiang e dei dirigenti del mondo petrolifero indagati nei giorni precedenti “è una cosa seria”, scrive Bill Bishop, curatore della newsletter Sinocism, uno dei canali più accreditati quando si parla di Cina.

Secondo Bishop, ciò indica la volontà di perseguire le “tigri”, di tenere le redini delle industrie di Stato e di neutralizzare gli alleati di cui ancora Bo Xilai gode all’interno della dirigenza. Non a caso, nota, le “purghe” contro gli alti dirigenti del settore petrolifero cinese sono arrivate all’indomani della conclusione del processo contro l’ex segretario del Pcc nella megalopoli di Chongqing e mentre Xi Jinping si trovava in viaggio nella provincia del Liaoning, in particolare a Dalian, città di cui Bo fu sindaco e nella quale affondano le radici tutte le vicende e le accuse che hanno portato alla sua epurazione.

Scrive il South China Morning Post che molti analisti vedono le inchieste contro Jiang come un modo per fiaccare la resistenza delle grandi aziende di Stato alla volontà, in particolare del premier Li Keqiang, di rompere alcuni monopoli nelle industrie strategiche, favorendo la concorrenza.

A novembre il Partito si riunirà per l’annuale plenum. La riunione verterà sulle riforme di cui il Paese necessita mentre il modello che ha caratterizzato la crescita cinese negli ultimi decenni sembra aver raggiunto i propri limiti.

Si tratterà di riforme economiche, sociali, amministrative, non politiche come evidenziato dal documento numero nove, di cui si è avuta notizia nelle scorse settimane, di fatto una critica ai valori occidentali che non fa che rimarcare quanto detto in più occasioni dalla dirigenza e evidenzia ancora la differenza di significato che a Pechino e in Occidente si dà alla parole “riforma”.

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