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Il referendum su Berlusconi

Questo commento è stato pubblicato sulla Gazzetta di Parma

Tra pochi giorni ci sarà un referendum, ma i dodici quesiti promossi dai radicali non c’entrano. Ci sarà il referendum per un “sì” o un “no” alla permanenza di Silvio Berlusconi al Senato. Lo scenario che si apre il prossimo 9 settembre a palazzo Madama, prevede due possibilità, e una peggiore dell’altra. O la giunta per le elezioni vota per la decadenza del Cavaliere da palazzo Madama, oppure ne sospende il giudizio, inviando gli atti alla Corte Costituzionale per approfondire la conformità ai massimi principi di una legge pur fatta da loro, cioè fatta da senatori e deputati. Sarebbe qualcosa di mai visto in precedenza: gli onorevoli che dubitano di se medesimi. Così come, del resto, mai s’era visto che fosse necessaria una legge – l’ormai celebre –Severino -, per stabilire che i condannati per gravi reati non entrano in Parlamento. Altrove ci pensano gli elettori o i diretti interessati da soli, senza bisogno che qualcuno glielo rammenti con un provvedimento.

Perciò, il caso del decadente Silvio Berlusconi è senza precedenti da qualunque punto di vista lo si voglia considerare. Eppure, il tira e molla sulla vicenda rischia di produrre un solo risultato: la fine del governo. Sia che il leader del Pdl venga silurato sulla base della legge contro l’incandidabilità dei condannati, sia che venga salvato in attesa di un’interpretazione della Consulta sull’applicabilità della legge a un caso del tutto inedito, sarebbe il caos.

Nell’ipotesi della decadenza il Pdl non potrà mostrare indifferenza per la decapitazione del proprio capo. Se il Pd avrà contribuito ad affondare il Cavaliere, cioè il leader del partito avverso, ma alleato di maggioranza, la reazione inevitabile dei colpiti sarà la caduta dell’esecutivo-Letta. Ma accadrebbe la stessa cosa a parti inverse.

Se il Pd dovesse fornire un aiutino al Cavaliere temporeggiando, la reazione degli elettori e sostenitori del centro-sinistra sarebbe egualmente furente. Dopo che il Pd ha fatto fuori Franco Marini e soprattutto Romano Prodi dalla corsa al Quirinale, il salvagente lanciato all’odiato nemico verrebbe vissuto come il terzo e peggiore dei tradimenti. L’effetto sul governo Letta sarebbe altrettanto immediato e automatico: tutti a casa.
E allora a prescindere da ogni discorso giuridico o morale sul merito della questione, Berlusconi ha solo una scelta politica, se davvero tiene a questo governo che ha appena abolito l’Imu per la prima casa – proprio come chiedeva lui -, e se vuole continuare a guidare il centro-destra. La scelta è semplice: dimettersi da senatore.

A meno di un inimmaginabile e controverso compromesso ai tempi supplementari (ma quale?) tra Pd e Pdl, soltanto con la rinuncia il leader del Pdl potrà evitare quel braccio di ferro che si rivelerebbe devastante comunque finisse. Invece, togliendo l’alibi del grande litigio, nulla potrà più impedire a Berlusconi di continuare a influire sull’esecutivo con una politica gradita anche agli elettori di centro-destra – l’esempio dell’Imu testimonia -, e allo stesso tempo di guidare il Pdl come il non parlamentare Beppe Grillo fa coi Cinque Stelle: e nessuno dubita della sua leadership.

Nel caso di Berlusconi, oltretutto, con l’addio al Senato si profilerebbe la possibilità di scontare una condanna breve (meno di un anno) e con tutti i comodi benefici di legge. Tra i quali l’invocata “agibilità politica” che, di fatto e pur con le difficoltà di un condannato ai domiciliari o ai servizi sociali, nessuno potrà contestargli. E se qualche magistrato lo facesse, il Cavaliere diventerebbe ancor più vittima, cioè forte, agli occhi dei numerosi italiani che considerano la sua vicenda giudiziaria come l’esito finale di una lunga persecuzione politico-ideologica.
Se va allo scontro, il decadente Berlusconi perderà il governo, che è la principale carta politica ancora in mano (e le elezioni anticipate non sono affatto scontate). Se invece si dimette, potrà conservare un peso nel governo e un ruolo politico nel Paese, oltre che sperare in un gesto clemente del Quirinale. In attesa di tempi per lui migliori, e non lontani.

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