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Siria e Papa Francesco, addio alla guerra giusta?

La lunga storia della fine del regime di Assad si sta ormai protraendo oltre misura. Il risultato è quello cui stiamo vedendo in queste ultime settimane. C’è vento di guerra. E farlo spirare è la belligeranza civile che lacera la Siria. D’altronde, quando i cittadini sono coinvolti, sia attivamente sia passivamente, in un conflitto, è chiaro che non si sta più consumando un combattimento convenzionale, ma inevitabilmente si stanno scavando le fosse comuni.

In questo caso è stato l’uso di armi chimiche l’innesco che ha acceso le reazioni indignate dell’Occidente. In particolare Usa, Francia e Gran Bretagna si sono per giorni mobilitati, giungendo a minacciare perfino un intervento unilaterale. Poi, vi è stato il passo indietro di Cameron, dopo decisione del Parlamento, e quello parziale di Hollande. Il problema però resta. Perché ad aggiungersi sono nuove questioni politiche e nuove opportunità economiche che spingono all’azione.

Da un lato l’esperienza dell’ex Jugoslavia che ha rivelato venti anni fa quanto sia grave a volte il non intervento militare tempestivo, un ritardo che ha colmato poi solo in parte le terribili nefandezze che si sono consumate tra cecchini e stupri etnici in Bosnia. Dall’altro i timori che vengono dalle recenti campagne in Iran e in Afghanistan. Entrare in guerra, in effetti, non è mai uno scherzo. Apre tutta una serie di effetti a catena che sono inimmaginabili in momenti di pace. Gli Stati Uniti, alla fine di una lunga presidenza Obama disimpegnata da tutto, sentono il bisogno di dare un segnale di presenza internazionale. D’altronde, non tutelare gli innocenti da eventuali usi di armi chimiche significa dimettersi da custodi dei diritti umani. E’ perdere una leadership globale e universale. Un precedente che potrebbe innescare un’implicita legittimazione, specialmente a Russia, Cina e Iran, a poter fare tutto per mantenere il potere, sapendo di non poter essere toccati.

Anche l’intervento, d’altro canto, avrebbe molte incognite e moltissime ripercussioni certe. Destabilizzerebbe, in primis, le relazioni diplomatiche tra Occidente e Oriente, in una fase storica in cui l’America è debolissima e Israele ha di fronte nemici molto minacciosi.

In tutto ciò l’intervento del Papa non sembra dare seguito alla prospettiva bellica. Francesco all’Angelus ha definito domenica scorsa la guerra in sé produttrice solo di guerra, reclamando la strada della pace come unica via. Sicuramente la violenza non è mai una medicina, ma neanche lo sterminio dei civili. E l’abbandono dell’idea di guerra giusta non può essere preso alla leggera.

In questo caso, ad esempio, molti dubbi restano nella considerazione di un eventuale disimpegno armato di Onu e Nato. Che vogliamo fare? Vogliamo veramente lasciare il mondo a se stesso? Vogliamo che i dittatori facciano quello che vogliono, pensando che non ci riguarda?

La presidenza Obama, più ancora di Assad, è sotto giudizio. L’Europa è sotto schiaffo. Il primo presidente di colore della storia rischia di passare agli annali come quello che ha fatto meno di tutti. D’altronde, quando l’evento dell’epoca è realizzato all’inizio, il primo nero presidente degli Usa, resta molto difficile fare qualcosa di grande in seguito.

Viceversa, una posizione forte atlantica è in questo momento indispensabile. Se, auspicabilmente, non si tratterà di una guerra, dovrà però esserci almeno un blitz rapido e incisivo, che dia ai siriani la consapevolezza che nessuno Stato può fare quello che vuole sulle spalle di uomini, donne e bambini.

La scelta pacifista, molto più che quell’armata, finisce in questo frangente per fare il gioco dei guerrafondai. Certo non quello della democrazia, né quello della Chiesa.

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