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Ecco il nuovo programma economico di Renzi. Parla Gutgeld

Nell’autunno 2012 Matteo Renzi lanciava l’offensiva contro la nomenclatura del Partito democratico sollevando la bandiera di un liberismo progressista alternativo allo statalismo e al culto della spesa pubblica. Adesso che le sue chance di vittoria sembrano non incontrare ostacoli, il primo cittadino di Firenze ha abbracciato uno spettro ampio di ricette. Ma per capire fino a che punto elasticità e pragmatismo possano annacquarne l’originario messaggio riformatore, Formiche.net ha voluto fare il punto sul suo progetto economico-sociale con il parlamentare del Pd Yoram Gutgeld, estensore del manifesto “Il rilancio parte da sinistra” e ritenuto il “cervello” delle Matteonomics.

Il vostro programma prevede un intervento rigoroso sulla spesa pubblica. Con quali priorità? 

È necessario uno stop a gran parte dei finanziamenti a pioggia per le imprese. Una componente significativa viene affidata in appalto al trasporto e alle comunicazioni locali, essenziali per il tessuto produttivo, e deve essere mantenuta. Le altre risorse dovrebbero essere destinate a incentivi fiscali per la ricerca e l’innovazione nelle piccole e medie aziende. Ma il provvedimento deve essere legato a una misura altrettanto rilevante: superare la gestione dissennata dei fondi comunitari, oscillante tra opere faraoniche, miliardarie e inutili come l’Alta velocità o il Ponte sullo Stretto e investimenti da poche decine di milioni di euro. Entrambi finalizzati a un immediato consenso politico.

Prevedete cinque-dieci anni di tagli selettivi e non generalizzati. Come intendete agire sul fronte della sanità? 

È fondamentale abbattere i costi per l’acquisto di beni e servizi. Ma non è facile imporre in breve tempo un rigoroso parametro di spesa per tutte le amministrazioni pubbliche. Bisogna coinvolgere ospedali e medici nella definizione degli standard qualitativi e finanziari.

Valorizzare e mettere sul mercato la metà del patrimonio immobiliare alienabile e delle case popolari è un provvedimento strutturale? 

Rappresenta un intervento di rilievo, ma è impensabile ipotizzare i 300-400 miliardi indicati dal centro-destra in campagna elettorale. Perché gran parte della ricchezza immobiliare appartiene a istituzioni locali e si pongono problemi giuridico-amministrativi per coordinare un programma di alienazioni. E perché alla luce della crisi del mercato edilizio non è facile vendere ai privati palazzi, ville, appartamenti di proprietà dello Stato. Anziché fare cassa è meglio valorizzare gli edifici e i musei pubblici per attrarre investimenti privati e creare opportunità di lavoro.

Proponete la privatizzazione delle partecipazioni pubbliche nelle aziende strategiche. Non teme una ritirata miope dello Stato da campi e imprese di eccellenza mondiale e di interesse nazionale

Non vedo tale rischio. Pensi alle Poste tedesche, vendute ai privati e divenute una multinazionale in grado di acquisire un’azienda del calibro di DHL. Ritengo percorribile e auspicabile compiere un’operazione analoga con Poste italiane e con gli altri colossi in mano pubblica. Proiettarli in una logica imprenditoriale pura rimuovendo la presenza e il controllo della politica è salutare per la loro collocazione internazionale. Industriali e manager all’altezza potrebbero promuovere più efficacemente l’eccellenza del “sistema Paese”.

Il ragionamento vale anche per le imprese fornitrici dei servizi pubblici locali?

Mettere sul mercato le multiutility rischia di cristallizzare i monopoli esistenti, articolati in una costellazione di piccole aziende provinciali. Compito del governo è coordinarne la crescita dimensionale e l’integrazione territoriale. È poi indispensabile regolamentare in modo differente il mercato delle assicurazioni – Rc auto in primis – e dell’energia, conferendo un ruolo più incisivo alle authority indipendenti. Ma misure del genere comportano l’azzeramento della riforma del Titolo V, che ha prodotto caos e paralisi decisionale, e la restituzione allo Stato della competenza esclusiva nei servizi pubblici e nel turismo.

La vostra ricetta fiscale è imperniata su una riduzione di 100 euro nel prelievo sui redditi medio-bassi. Non è una misura tiepida per promuovere uno shock salutare della nostra economia? 

La prospettiva ideale sarebbe estendere l’abbassamento dell’IRPEF ai guadagni medio-alti per mettere in moto un circuito virtuoso complessivo dei consumi. Tuttavia un provvedimento di tale respiro richiederebbe 30 miliardi di euro, difficili da reperire. Mentre i 15 miliardi da noi previsti hanno una copertura completa e costituiscono un primo tassello per ridisegnare un regime vantaggioso per il lavoro rispetto alle rendite patrimoniali finora privilegiate. A favore delle imprese è preferibile defiscalizzare il reinvestimento degli utili nelle attività produttive. E utilizzare parte dei 235 miliardi di risorse private affidate a Cassa depositi e prestiti per programmi pubblici in grado di attrarre investimenti privati. Risorsa strategica su cui puntare senza timori di ricostituire una nuova IRI.

La spesa pubblica italiana è tuttora sbilanciata sul fronte previdenziale. Come si può invertire la rotta? 

Per costruire un Welfare equo di tipo europeo penso al dimezzamento o azzeramento dell’adeguamento all’inflazione per le pensioni che superano dalle tre alle sette volte quella minima e non sono ancorate ai contributi versati. Una “patrimoniale” sugli assegni più alti che produrrebbe un risparmio annuo fra i 3 e i 4 miliardi, tanto più necessaria rispetto ai giovani precari che riceveranno trattamenti ridotti a un terzo dell’ultimo stipendio.

Come pensate di intervenire nel mercato del lavoro? 

Acclarato il rilevo marginale dell’articolo 18, bisogna muoverci verso contratti unici con garanzie crescenti nel tempo. Perché l’alternativa è il precariato a vita. Guardo con interesse alle proposte di Pietro Ichino e di Tito Boeri e Pietro Garibaldi, per cui il rapporto dopo tre anni si trasforma in attività senza limiti temporali – garanzie dell’articolo 18 comprese – e nell’ipotesi di un licenziamento del lavoratore nei primi 36 mesi è previsto un indennizzo economico cospicuo anziché il diritto al reintegro. Ma ritengo interessante come canale di inserimento l’istituto tedesco del “micro-job”, contratto a termine con retribuzione medio-bassa da parte delle aziende e integrazione indiretta ad opera dello Stato. Poi potremo ripensare gli ammortizzatori sociali ragionando su sussidi diretti al reddito vincolati alla formazione e al reinserimento nel tessuto lavorativo. Tenendo presente che una rete di protezione come la flexsecurity danese ha un costo molto elevato per l’Erario.

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