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Berlusconi e Ilva, quando la politica pensa al passato

Il principio di causalità non si applica solo alle leggi della fisica, ma anche alla sequenza di azioni e situazioni che costellano la nostra vita. Nasce dall’idea che i fenomeni si susseguano unicamente in un processo di causa/effetto, mentre tutto ciò che non risponde a questa legge è dovuto al caso o al libero arbitrio. In base a questo principio la nostra situazione attuale dipende dalle cause che abbiamo posto nel passato, così come dalle cause che poniamo nel presente dipenderà la nostra situazione futura.

Naturalmente, se diamo per pacifico questo teorema, non sarà solo a causa delle azioni che personalmente o collettivamente abbiamo creato in passato che dipende la nostra situazione nel presente, essendo in ogni caso influenzata da ciò che altri hanno fatto.

In ogni modello di società, gli individui si sfruttano reciprocamente per soddisfare i loro bisogni: un imprenditore rischia il proprio capitale e trae profitto dal lavoro dei suoi dipendenti che, a loro volta, sfruttano l’iniziativa del primo ottenendone in cambio una retribuzione. I rapporti sono poi necessariamente regolati dalle leggi, in quanto, per istinto, ognuno tende a far privilegiare i propri interessi, singolarmente o organizzandosi in gruppi, trovando però i perimetri della libertà d’azione nelle regole della morale o imposti dalla forza coatta delle norme giuridiche.

Quindi, applicando il principio di causalità alla società italiana, in particolare alle questioni legate a Silvio Berlusconi ed alla vicenda tragica nel contempo tafazziana della Riva Acciaio Ilva – è possibile rendersi conto che l’effetto negativo che impatta sull’intera collettività, seppur a due diversi livelli, ha una precisa ragione: l’incapacità di vivere il presente e perpetuare il dibattito ai vari livelli, mass media e istituzionale, esclusivamente sul passato: la vicenda politica e personale del Cavaliere o sugli orrori commessi a Taranto prima dalla pubblica amministrazione e poi dalla famiglia Riva. Ora, la questione è come uscire e superare tale effetto, non di discuterne all’infinito la causa.

Non ha senso vivere recriminando sul passato dell’Ilva o, nel caso del Pd, crogiolarsi nell’attesa della fine di un avversario politico, peraltro diventato negli anni un’ossessione. In entrambi i casi, dato che non è possibile modificare il passato, sarebbe opportuno concentrarsi sul presente per non rischiare di creare ulteriori e maggiori danni futuri.

Viviamo un momento talmente delicato che il comune buon senso dovrebbe suggerire a tutti noi che l’interesse generale del Paese e quello particolare dei lavoratori della Riva Acciaio, richiederebbero soluzioni e misure straordinarie così come sono eccezionali le situazioni di entrambi.
Lo stato di bisogno impone un colpo d’ala a chi di dovere – Presidente Napolitano e Governo – che non rientra nelle questioni di normale amministrazione, ruoli e compiti istituzionali costituiti. Le imprese ed i lavoratori vivono una battaglia quotidiana contro la crisi economica, mentre la politica italiana ha combattuto una guerra fredda per oltre venti anni che certamente non finirà a colpi di sentenze e con le dimissioni eventuali o la decadenza di Berlusconi. Così come, per l’Ilva, il licenziamento di 1400 dipendenti non bonificherà l’area di Taranto e non restituirà la salute ai suoi cittadini.

Meglio il libero arbitrio di due istituzioni – Presidenza della Repubblica e Governo – mediante una azione forte ed autoritaria che trascenda le decisioni di un ordine dello Stato e tiri così una riga, gettando le basi per la fine della dittatura di una democrazia parlamentare che da tempo ha rinunciato, non senza una buona dose di masochismo e di ipocrisia, ad esercitare il suo potere. Poi potremo finalmente pensare a come diventare un Paese normale, magari iniziando a riscrivere alcune delle regole di base oramai inadatte e segnate dal tempo.

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