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Una spruzzata di Camaldoli per rilanciare lo sviluppo

Riaffermare il ruolo nevralgico delle istituzioni pubbliche per governare, promuovere, orientare, correggere lo sviluppo economico e dare corpo alla dignità della persona. Perché nessun attore di mercato, oggi, è in grado di realizzare grandi investimenti produttivi. È l’idea-forza che emerge dal convegno promosso da Link Campus University di Roma per celebrare il convegno di intellettuali e laureati cattolici organizzato nel monastero benedettino di Camaldoli fra il 18 e il 24 luglio 1943. Culminato nella redazione di un Codice che prefigurò un’organizzazione sociale alternativa all’autoritarismo paternalista del regime fascista, alla pianificazione collettivista social-comunista, all’individualismo liberista. Costituendo il lievito fecondo per l’elaborazione del programma della nascente Democrazia cristiana poi tradotto nella Carta fondamentale del 1948.

L’eredità del Codice di Camaldoli nella lettura di Vincenzo Scotti

Un protocollo che può essere compreso solo nella temperie storica della caduta di Benito Mussolini, della vittoria delle leadership democratiche incarnate da Franklin Delano Roosevelt, delle aspirazioni a una democrazia repubblicana fondata su un’idea alta di giustizia. È il “tempo di Camaldoli”, ricorda il preside della Link Campus Vincenzo Scotti, sepolto sotto le macerie prodotte da coloro che Federico Caffè chiamava “gli incappucciati della finanza globale”. Esaminare i fermenti di quella Settimana sociale dei cattolici italiani può aiutare a capire il modello di “economia mista” fondata sul forte interventismo pubblico nel mercato.

Prospettiva, rimarca l’ex ministro dell’interno, costante nella storia del nostro paese, già delineata con le istituzioni post-unitarie: “Artefici di un’azione paternalistica e statalista, fonte di arbitrio e di corruzione autoritaria dello Stato di diritto”. Rispetto a tale premessa la riflessione compiuta nell’abbazia toscana 70 anni fa compie un salto di qualità ponendo al centro la persona e i corpi sociali intermedi, non l’individuo, le masse, la nazione. E offre, spiega Scotti, “una lezione di fantasia, creatività e rigore a tanti economisti contemporanei ingabbiati negli schemi dottrinari delle diverse scuole e incapaci di leggere le cause della crisi che rischia di travolgere la costruzione europea”.

Il monito di Piero Barucci contro la tentazione di nuove IRI

Una lezione che rompe con la visione totalitaria e corporativa fondata sulla pianificazione economico-sociale e sul primato dello Stato nei confronti della comunità civile. Fu quell’orizzonte, osserva l’ex responsabile del Tesoro nei governi Amato e Ciampi Piero Barucci, a imporsi sulla Scuola economica liberale di Luigi Einaudi, punto di riferimento di Carlo Rosselli ed Ernesto Rossi, minoritaria durante il fascismo così come nel corso della stesura della Costituzione repubblicana. Carta basata sulla centralità dell’economia mista, che oggi ritorna in auge dopo la stagione liberista degli anni Novanta.

La ragione di questa riscoperta, argomenta l’economista, non risiede solo negli effetti della crisi, nel fallimento della promozione della democrazia nelle aree meno avanzate del pianeta, nell’assenza di imprenditori coraggiosi: “Si spiega perché è parte essenziale della nostra storia”. Ma tale presa di coscienza non deve far ricadere i cattolici nella tentazione di rifondare l’IRI. “Perché, come aveva ben presente il suo fondatore Alberto Beneduce, i vincoli di bilancio e l’efficienza economica sono valori da rispettare anche da parte dello Stato, e la priorità oggi deve essere attribuita alle modalità della produzione industriale. Fattore assente nell’Italia collocata al ventiquattresimo posto nell’OCSE per aumento del PIL pro-capite”.

Francesco Forte valorizza il carattere liberale del Protocollo di Camaldoli

Professore di Scienza delle finanze e ministro delle finanze negli anni Ottanta, Francesco Forte mette in luce le straordinarie affinità tra il Codice di Camaldoli e il progetto di “Costituzione cristiana per la nuova Germania libera” scritta nel 1943 dal pastore e teologo luterano Dietrich Bonhoeffer, prigioniero e poi martire dei nazisti. E nel clima spirituale degli europei che si opposero alla barbarie totalitaria in nome dell’umanesimo cristiano e liberale lo studioso illumina un protagonista dello storico seminario: Ezio Vanoni, cervello della riforma tributaria e autore dello “Schema di sviluppo dell’occupazione e del reddito in Italia nel decennio 1955-64” a cui contribuì anche Pasquale Saraceno, meridionalista e fondatore dello SVIMEZ.

Un programma di investimenti pubblici nei settori propulsivi dell’agricoltura e delle imprese di pubblica utilità mai messo in atto, ancorato a rigorosi vincoli di bilancio e di stabilità monetaria. Per lui l’impresa pubblica, fondamentale in quel momento per promuovere lavoro e consumi come rivela il suo supporto alla creazione dell’ENI da parte di Enrico Mattei, doveva essere governata come un’azienda di mercato. Era una prospettiva che prefigurava l’economia sociale di mercato fondata sul protagonismo, interazione e cooperazione delle persone dotate dell’attitudine naturale all’apertura e alla responsabilità verso l’altro. Un’ottica profondamente umanistica, per la quale lo stesso prelievo tributario deve avere sempre una causa e una finalità e non può essere alla mercé dello Stato.

La critica di Giorgio La Malfa all’economia mista

A rilevare l’importanza dell’IRI, da cui provenivano Paronetto e Saraceno, nell’elaborazione del Protocollo di Camaldoli è l’ex leader del Partito repubblicano Giorgio La Malfa. Il quale ricorda come la sua fondazione sia dovuta a un’iniziativa di emergenza assunta dal governo Mussolini nel 1933 per risolvere la crisi bancaria dopo il fallimento del programma “Quota 90 e la catastrofe del 1929. L’IRI venne costituito come ente di salvataggio provvisorio per acquisire con fondi pubblici il capitale e i debiti degli istituti di credito, valorizzarli e metterli sul mercato vendendone le partecipazioni agli industriali privati. Gruppi che non possedevano i capitali necessari. Ragion per cui nel 1936 l’IRI venne stabilizzato, perpetuandosi nel dopoguerra su impulso dei cattolici come fulcro della “terza via” italiana fra capitalismo liberale e socialismo pianificatore. Una scelta, spiega La Malfa, che “si rivelò un pasticcio poiché la nozione di impresa pubblica, che pure nel nostro paese ha formato numerosi dirigenti e imprenditori privati alla cultura manageriale statunitense, ha prodotto un eccesso di fiducia nelle aziende di Stato”.

L’interrogativo senza risposta di Piero Craveri

Rivendicando il valore e i meriti di un’idea di economia pubblica che “si tramanda in un fil rouge laico dalla Destra storica a Francesco Saverio Nitti fino ad Alberto Beneduce”, lo storico già parlamentare radicale Piero Craveri conclude la riflessione con un interrogativo pessimista: “Mi chiedo come il Protocollo scaturito dal seminario di 70 anni fa possa essere attualizzato oggi, in presenza di vincoli finanziari interni ed esterni e in mancanza del tasso di sviluppo degli anni Cinquanta e Sessanta. Fattori che spingono molte persone e gruppi politici a invocare la fuoriuscita dall’euro e a rifiutare la democrazia politica rappresentativa in nome di una democrazia diretta rousseauiana portatrice del virus totalitario”.

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