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Perché le dimissioni dei parlamentari del Pdl sono autolesionistiche

Le minacciate (ma non formalizzate) dimissioni dei parlamentari fedeli a Berlusconi non possono essere bollate impunemente come atti di irresponsabilità nei confronti di una nazione ancora in difficoltà economiche. Semmai potrebbe trattarsi di atti di disperazione autolesionistica: sempre, però, espressivi di una protesta contro la cancerosa patologia che affligge la democrazia italiana da troppo tempo e alla quale non si trova rimedio se non con responsabili e autorevoli misure d’ordine politico e ordinamentale a tutti i livelli istituzionali.

Intendo riferirmi alla cosiddetta “agibilità politica” di cui parlò lo stesso Capo dello Stato in una sua lunga lettera del 13 agosto scorso, con trasparente riferimento alla condanna Berlusconi-Mediaset e alle collegate riflessioni sugli eccessi di un interventismo giudiziario non degno di una civiltà giuridica e di uno Stato democratico. Ovviamente prescindo dalle prerogative presidenziali del Presidente della Repubblica, cui la carta costituzionale non assegna unicamente il potere di grazia.

L’agibilità politica non è una concessione regale. E tanto meno una marginalità condizionata dalla comprensione umanitaria di un giudice di sorveglianza disposto a tramutare l’espiazione in carcere in arresti domiciliari o in assegnazione ai servizi civili. Non si vede, oltretutto, perché dei provvedimenti di tal genere, quotidianamente assegnati da titolari di tali poteri a un qualsiasi cittadino non criminalizzabile, debbano essere giudicati atti di favore ad personam per un signore ultrasettantacinquenne che è stato ben cinque volte presidente del consiglio per volontà di milioni di elettori.

L’agibilità politica è un principio democratico collegato ad una norma costituzionale – l’immunità parlamentare – che, questa sì “irresponsabilmente”, venne cancellata dalla costituzione in piena Tangentopoli, per cupidigia di servilismo da parte di alcune personalità politiche senza dignità quanto arruffone e non poco ottuse. I capi politici più anziani, specie gli autorevoli, sanno bene che l’eliminazione della immunità, fu un errore storico cui sarebbe opportuno porre riparo: anche ricorrendo a misure straordinarie nello spirito indicato dai padri costituenti. E nel quadro di una pacificazione nazionale, i cui termini d’attuazione sono molteplici e non limitati alla stabilità di un governo.

Ho l’impressione, però, che in troppi scambino l’agibilità politica con il caso personale di Silvio Berlusconi, come si evince anche dalle motivazioni registrate in sede di Giunta delle elezioni del senato anticipando una infelice legge Severino di evidente incostituzionalità. Invece, il problema della agibilità politica investe indirettamente Berlusconi: e inficia direttamente la validità del voto dato liberamente da milioni di elettori ai programmi e ai candidati del Popolo della libertà.
Qui è il nodo, non nella persona di Berlusconi e del suo diritto a reclamare la sua innocenza dinanzi alla Corte di Giustizia europea, che va tempestando l’Italia per la sua recidività in tema di amministrazione della giustizia e di responsabilità personale dei magistrati che sbagliamo imputazioni o sentenze o incarcerano a proprio piacimento.

L’agibilità politica degli elettori del Popolo della libertà nasce dal voto stesso del 24-25 febbraio scorsi: non tanto per la quantità dei consensi raccolti dagli esponenti berlusconiani, quanto dalla duplice proposta costruttiva e innovativa – avanzata da Berlusconi appena resi noti i risultati della consultazione – di eleggere un nuovo capo dello Stato il cui nome fosse largamente condiviso dai grandi elettori (e non di una sola parte o per esclusiva somma di numeri sinistrosi) e di dare vita ad un governo di coalizione fra Pdl e Pd, sino a poche ore prima l’un l’altro antagonisti.

Provengono dal Pdl e da Berlusconi le due proposte che hanno consentito tanto la rielezione straordinaria di Giorgio Napolitano che la costituzione del governo Letta. La cui forza sta appunto nel superamento dell’antagonismo e nella scelta del grancoalizionismo, appena richiamato nella Germania della Merkel. L’instabilità politica italiana non dipende dai cangianti umori di Berlusconi (che uno statista dovrebbe tenere per sé), bensì dalla generale incapacità del Pd di accettare i benefici ma anche le difficoltà inevitabili di una coalizione fra opposti.

Se Renzi sberleffa Berlusconi per fare cadere Letta e puntare al suo ruolo, si deve riconoscere che Berlusconi ha più ragioni per reagire e ricordare, a tutti, che le elezioni presidenziali e il governo Letta, non furono casuali: ma derivano da una scelta politica e istituzionale che implica il consenso vero di tutti. Che non c’entra nulla col tatticismo delle venticinque correnti piddine che non si capiscono fra loro, e neppure con le minacciate dimissioni anticipate dei rappresentanti di otto milioni di elettori che non sono da considerarsi sotto tutela presidenziale o giudiziaria.
Oltre tutto l’assenza di agibilità politica vulnera anche chi non ha votato né per Berlusconi, né per Bersani, né per Grillo, né per Vendola, tutti imposti in virtù del Porcellum, non di un virtuoso proporzionalismo.

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