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Il triangolo Usa-Israele-Iran

Le aperture di Teheran non rassicurano Washington, dove a prevalere è lo scetticismo verso le promesse di uno stop al programma nucleare iraniano. Nel suo incontro di ieri alla Casa Bianca con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il presidente Barack Obama, diversamente da quanto detto durante l’ultima Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ha affermato che per impedire che il regime degli ayatollah si doti di armi atomiche “tutte le opzioni restano sul tavolo“, compresa quella militare.
Un atteggiamento che ha rassicurato Israele, convinta che sia necessario “mantenere la pressione“, affinché Teheran smantelli “completamente il suo programma nucleare militare“, a costo di inasprire le sanzioni verso il Paese, se questo dovesse continuare ad arricchire uranio anche dopo l’inizio dei negoziati.

UNA MOSSA GEOPOLITICA
Con la scelta di non cedere a facili entusiasmi, Obama sembra aver riguadagnato consenso in politica estera, dopo i tentennamenti nella crisi siriana. A testimoniarlo sono le analisi di molti osservatori, come quella del presidente di Stratfor, George Friedman. Per il fondatore della società di intelligence americana, la telefonata del presidente Usa al suo omologo iraniano Hassan Rouhani dopo 34 anni di silenzio tra i due Paesi e le dichiarazioni concilianti di Teheran, indicano “la volontà di dialogare” e vanno prese “molto seriamente“, perché hanno un motivo geopolitico.

LA STRATEGIA AMERICANA
L’Iran, spiega Friedman, “ha tutto l’interesse a non possedere realmente armi nucleari, che potrebbero generare un massiccio attacco militare da parte di Usa e Israele. L’obiettivo di Teheran resta invece quello di usare il proprio programma militare come minaccia da agitare per ottenere da un lato maggiore influenza in Medio Oriente” e dall’altro un allentamento delle sanzioni che ne stanno minando l’economia, come spiegato dal New York Times. “Negli Stati Uniti, continua il fondatore di Stratfor, c’è una profonda resistenza a trattare con il regime iraniano“, elemento che si combina al “progressivo ritiro degli Usa dal MO“. A questo si somma la volontà di difendere i propri interessi nella regione “evitando un’altra guerra sul campo“, ma tenendo contemporaneamente “in perfetto equilibrio i mondi sunnita e sciita“. Avere un Iran che si sgretola non è nell’interesse americano, così come non lo è un Iran che assurge a potenza regionale. Motivi per cui, in questo caso, il temporeggiamento di Obama è una mossa azzeccata.

La centrale nucleare di Nantanz a 160 chilometri a Sud di Teheran. (© Ansa)
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CHI NON VUOLE LA PACE
Dopo questa fase di studio tuttavia, continua l’esperto di geopolitica, ci sarà una vera chance per negoziare, ma con alcuni rischi. Il primo fra tutti è quello di una persistente mancanza di fiducia tra i due Paesi, difficile da cancellare. Ma il timore maggiore è per le interferenze di chi vorrebbe che la trattativa fallisse. Tra i contrari a un accordo sembra esserci Israele, che – secondo quanto evidenziato su Al-Monitor da Clovis Maksoud, ex ambasciatore e osservatore permanente della Lega degli Stati arabi presso le Nazioni Unite – cerca in modo “arrogante” di mandare a monte un’opportunità e impedire che Teheran possa prendere tempo. Ad ogni modo Tel-Aviv, se la volontà dell’Iran di rinunciare al proprio programma nucleare dovesse risultare credibile, avrebbe tutto l’interesse a non ostacolare questo processo, che non avrebbe mai potuto realizzare da sola senza la mediazione statunitense.
Al contrario, a mettere i bastoni tra le ruote potrebbe essere l’Arabia Saudita, rivale di Teheran e ansiosa di espandere la propria azione in Medio Oriente. Questa volta, però, gli Stati Uniti potrebbero non accogliere tiepidamente le ingerenze di Riyadh, anche perché, ricorda Friedman, l’influenza dell’Arabia Saudita a Washington è diminuita notevolmente dai tempi della guerra in Iraq.

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