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Tempi duri per il gas russo

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Leonardo Maugeri, fiorentino, classe ‘64. Analista strategico dell’industria petrolifera. Dopo aver ricoperto incarichi di punta nel gruppo Eni, è oggi visiting professor dell’Harvard Business School e membro dell’Energy advisory board del Mit. È stato consigliere di amministrazione di Saipem, Italgas e di Polimeri Europa (oggi Versalis).

Conversazione con Leonardo Maugeri di Alessandro Beulcke*

La storia della Russia è direttamente legata all’andamento dei prezzi di gas e petrolio. L’ascesa politica di Putin è coincisa con una fase di aumento dei prezzi del barile, così come il fallimento delle politiche di Gorbačëv dipese dal crollo di quei prezzi. Putin ha usato le materie prime per riaffermare la Russia come superpotenza, ma le materie prime oggi non bastano più. E la crisi d’identità del Paese andrà acuendosi nei prossimi anni, schiacciato dal ruolo di Usa e Cina

La crisi sta causando una riduzione importante dei consumi energetici in Europa. Le conseguenze ricadono sul suo più importante fornitore di gas, la Russia, che rischia di veder messo in crisi il suo modello di capitalismo di Stato. Quali vie di uscita?

Mosca ha due grandi problemi. Il primo, e principale, è il prezzo del gas.
Oggi questo è ancora legato al prezzo del petrolio nei principali mercati di riferimento, ma la situazione sta cambiando. Soprattutto nei Paesi europei, che rappresentano il grosso dell’esportazione di gas per la Russia, c’è una richiesta continua di rinegoziazione dei contratti esistenti. Le nuove formule che la Russia sta concedendo alle compagnie europee prevedono sconti, ma il legame con il prezzo del greggio rimane. Questo primo problema ha un carattere strutturale.
Bisogna considerare che oggi già quasi il 50% del gas consumato in Europa non è più legato al prezzo del greggio ma a formule spot, di mercato libero. La portata e la rapidità di questo cambiamento, di questo progressivo scollarsi, divaricarsi tra il prezzo del gas e quello del petrolio, ha sorpreso un po’ tutti. Mosca si trova di fatto a fare fronte alla dissoluzione di un mercato di riferimento.
L’altro problema è il prezzo del petrolio in sé. Il livello che il prezzo del greggio ha raggiunto non è sostenibile nel medio e lungo periodo. La capacità di produzione petrolifera sta crescendo in tutto il mondo, e non solo negli Stati Uniti, dove il fenomeno è straripante: da qui a due anni si avrà un forte ridimensionamento del prezzo del greggio, e questo a sua volta trascinerà verso il basso il prezzo del gas. L’assetto politico russo non potrà non esserne influenzato. Del resto, se guardiamo la storia di questo Paese, ci accorgiamo che è direttamente legata all’andamento dei prezzi di gas e petrolio. L’ascesa politica di Putin è coincisa con una fase di aumento dei prezzi del petrolio e del gas, così come il fallimento delle politiche di Gorbačëv dipese dal crollo di quei prezzi. Lo stesso possiamo dire dell’era della stabilità brezneviana negli anni Settanta – favorita dagli shock petroliferi.

L’ingerenza del Cremlino continua ad essere gravosa. Oggi però alcuni gruppi sembrano voler rivendicare una maggiore autonomia. Ci sono privatizzazioni o riorganizzazioni in campo?
In realtà, che le società siano pubbliche o private, in campo energetico tutto passa dal Cremlino. Su questo Putin è sempre stato molto chiaro. La sua visione politica è che la possibilità della Russia di risorgere e di tornare ad essere una superpotenza può essere garantita solo se il controllo delle fonti energetiche e delle materie prime resterà nelle mani dello Stato: queste sono le basi per il rilancio del Paese. Per questo, non vedo grande spazio per le società private che non abbiano un filo diretto con il Cremlino: e anche in questo caso, devono essere società russe, non straniere. L’esperienza ci dice infatti che alla fine si sbatte sempre contro la volontà del Cremlino.

Però su alcuni progetti, particolarmente impegnativi, si stanno avviando joint venture internazionali. Quanto spazio c’è davvero per queste collaborazioni?

In questi giorni si parla di una joint venture tra Rosneft, Exxon e Statoil per lo sfruttamento di un giacimento di shale oil – quello di Bazenov – che pare essere tra i più grandi al mondo, anche se i dati a mio parere sono molto discutibili. Al di là di ciò, dobbiamo ricordarci che la Russia, negli ultimi venti anni, ha sempre coinvolto le società internazionali per fronteggiare problemi o sfide enormi – a carattere tecnologico, ambientale, economico – che non poteva risolvere da sola. Una volta superate le sfide, però, queste società sono state allontanate – più o meno gentilmente. Insomma, il nazionalismo delle risorse fa parte del Dna russo. Non vedo cambiamenti sostanziali di atteggiamento e, di conseguenza, le possibilità di penetrazione e radicamento dei gruppi internazionali in questo Paese restano scarse.

Ci sono possibilità che gruppi italiani partecipino al processo di ristrutturazione dell’upstream russo?

Il sistema di gasdotti russo fa acqua da tutte le parti: le perdite di gas sono enormi. Il problema esiste da decenni ed è ben noto, ma intervenire richiederebbe investimenti dell’ordine delle centinaia di miliardi di dollari. Negli anni ‘90, l’Eni fece un intervento limitato e fu ripagata in gas. Per quanto riguarda l’upstream, il discorso non è molto diverso. Le compagnie russe hanno bisogno solo in alcuni casi delle società internazionali, soprattutto quando gli impegni economici sono rilevanti o le sfide tecnologiche troppo ardue. Ma in questo specifico ambito, negli ultimi anni sono cambiate moltissime cose: le tecnologie e la capacità di gestirle, non sono più in mano alle grandi compagnie petrolifere occidentali, ma alle service company. Molte società russe si interfacciano direttamente con loro, altre preferiscono ricorrere all’intermediazione della grandi società occidentali, soprattutto per ridurre i rischi iniziali. Ma rimane un uso opportunistico, non strategico. Lo stesso sta accadendo in altre parti del mondo, dove il ruolo delle major è in declino. A questo tema sto dedicando un mio prossimo lavoro. Posso solo anticipare che la colpa di questo declino è delle stesse major.

Sul ridimensionamento del ruolo russo pesa anche la rivoluzione dello shale gas negli Usa che oggi si candidano ad essere esportatori di gas. Quanto inciderà questo aspetto sul rapporto Usa-Russia?

In realtà, più di ciò che realmente accadrà, è la paura di ciò che può accadere in America a influenzare le scelte russe. Dubito che gli Usa diventeranno dei grandi esportatori di shale gas; lo diventeranno, certamente, ma non nella misura in cui sarebbe possibile. Il perché è presto detto: quanto più il gas viene esportato, tanto più il prezzo sul mercato domestico sale, adeguandosi a quello internazionale. Questo significa giocarsi i vantaggi industriali enormi dell’avere un gas a basso costo. Per questo, ci sono lobby – industriali ma anche di consumatori – che si stanno battendo per limitare l’esportazione dello shale gas. Bisogna tener presente che il prezzo del gas non è uguale in tutti gli Stati americani, alcuni, che non sono collegati alla pipeline, hanno un prezzo pari a quello europeo, mentre in altri Stati il prezzo è sceso a meno di un terzo del prezzo europeo. Questo fa sì che le imprese si spostino e che la geografia industriale si trasformi. La Russia ha paura di quello che può succedere. E questo è un elemento che andrebbe considerato e sfruttato, soprattutto in termini di revisione dei contratti esistenti.

Allargando ulteriormente l’orizzonte di analisi. Quali sono realisticamente le concrete possibilità di un’Unione euroasiatica, cioè principalmente di un sodalizio tra Russia e Cina?

Ogni volta che ha problemi con l’Europa la Russia minaccia di spostare le esportazioni verso est. La Cina, però, si è sempre dimostrata un interlocutore difficile, ostico. La Russia vuole imporre prezzi e condizioni, ma la Cina non li accetta. Per questo sembrano sempre imminenti accordi per la costruzione di gasdotti che colleghino Russia e Cina – che tuttavia non si materializzano mai. Oggi la politica energetica cinese consiste soprattutto in un tentativo di accaparramento delle riserve di gas e petrolio ovunque si trovino nel pianeta, a qualunque prezzo. Però sono dell’idea che non durerà molto a lungo. Dopo aver incontrato riservatamente molti esponenti dell’intellighenzia cinese so che si sta facendo strada in Cina una scuola di pensiero diversa che si fonda sulla consapevolezza del ruolo fondamentale che il Paese gioca nel mercato energetico globale, sulla consapevolezza che i mercati mondiali dipendono dagli acquisti della Cina: ne consegue che è la Cina a poter fissare prezzi e formule, dettando le regole del mercato. Ci vorrà tempo, ma questa corrente prenderà piede. Per questo, la Russia continuerà ad avere problemi con la Cina, e l’Unione Euroasiatica di cui si parla è più una storia da raccontare sui giornali che una realtà praticabile.

Quello che descrive è un progressivo declino della Russia nel panorama energetico. Eppure è difficile credere che i russi siano disposti ad accettare questo cambiamento di ruolo. Cosa possiamo aspettarci?

Direi che si tratta di una crisi di identità che andrà acuendosi nei prossimi anni. Putin ha usato le materie prime per riaffermare la Russia come superpotenza, ma le materie prime non bastano più. In ogni caso, il loro uso in termini politici richiede intelligenza e flessibilità a seconda dei periodi storici. Per esempio, se la Russia iniziasse a dare il suo gas a un centesimo in meno del prezzo spot, potrebbe continuare a mantenere un ruolo fondamentale nei mercati. Fare una politica che guarda a riconquistare quote di mercato, invece di massimizzare il prezzo, potrebbe essere utile. Ma i bilanci russi dipendono da queste esportazioni ed è sempre difficile per i Paesi grandi esportatori affrancarsi dalla loro dipendenza dagli introiti delle materie prime, e introdurre politiche lungimiranti, che agiscano sulle formule di prezzo, sulla contrattualistica. In linea generale, in questa crisi di identità, schiacciata tra il nuovo ruolo di Usa e Cina, la Russia ha più probabilità di successo come intermediatore quando uno dei due Paesi compie degli errori, com’è successo ad Obama con la Siria. Fino a oggi non mi sembra che si sia distinta per grandi successi autonomi in campo internazionale.
*Presidente Allea-Festival dell’energia

 

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