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J’accuse di Occhetto a D’Alema

È evocata dagli esponenti del centro-destra per esaltare l’impresa politica realizzata da Silvio Berlusconi contro una corazzata progressista che appariva destinata al trionfo. Ed è assurta a sinonimo di clamorosa disfatta elettorale. Ma cosa fu davvero la “Gioiosa macchina da guerra” costruita nel 1994 dall’allora leader del Partito democratico della sinistra Achille Occhetto? È l’ultimo segretario del PCI e artefice della “Svolta della Bolognina” a tentare di rispondere grazie a un libro intitolato proprio “La Gioiosa macchina da guerra” presentato e discusso con altri protagonisti della stagione che accompagnò l’Italia dal crollo del Muro di Berlino agli albori della seconda Repubblica. Una ricostruzione nutrita di passione e ironia, animata dalla volontà di capire perché dalla crisi del socialismo reale si è usciti a destra e non a sinistra. Lo sbocco è una requisitoria amara e orgogliosa contro “i dirigenti di Botteghe Oscure che tradirono e vanificarono il valore e la forza innovativa della Svolta”. Fra tutti, Massimo D’Alema.

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Il j’accuse contro i nemici interni della Svolta

È stato compiuto il passaggio di una generazione politica da un orizzonte leninista e talvolta stalinista a una prospettiva socialdemocratica e progressista? E perché quel tentativo è stato sconfitto rispetto al fenomeno Berlusconi? Il fondatore del PDS affronta tali interrogativi con le lenti dell’esperienza di un “comunista originale, aderente a una cultura minoritaria che scaturisce dal dialogo tra Piero Gobetti e Antonio Gramsci e dalla generazione straordinaria del Partito d’Azione, vero lievito della sinistra che trovò espressione nell’Unione goliardica degli studenti universitari”. Riparte dal giorno in cui annunciò che non era più possibile proseguire con l’appellativo  “comunista”. Era seduto a fianco di Pietro Ingrao, che come tutti gli altri rappresentanti del PCI non obiettò nulla. Avrebbe dovuto essere “l’inizio di un percorso verso la radicale riforma della politica, fondata sul bipolarismo e sull’alternanza. E per questo motivo fummo fautori del referendum per il passaggio al meccanismo di voto maggioritario uninominale“.

Tuttavia fallì l’incontro tra la sinistra e le esigenze di libertà, un divorzio che ha abbandonato la libertà nell’alveo della destra e del moderatismo”. È la mancanza che l’ultimo leader comunista rimprovera ai suoi successori alla guida del PDS e ai sostenitori del “riformismo pallido”. E soprattutto a chi “fin dal tempo della Svolta ordì manovre e congiure di correnti prima culminanti nella caduta del governo Prodi nel 1998 – i cui artefici furono Massimo D’Alema, Fausto Bertinotti e Francesco Cossiga – e recentemente palesati nel “tradimento dei 101 parlamentari del Pd nelle elezioni per il Capo dello Stato”. Per cui “oggi non si può costruire il nuovo con il peggio di PCI e DC, ma è necessario contaminarsi con semi innovativi che partano dalla critica radicale del potere”.

La difesa delle scelte elettorali del 1994

Poi giunse la fase della “Gioiosa macchina da guerra”. Tentativo che Occhetto rivendica contro le accuse più consolidate. La prima, proveniente dalla “destra e dai miglioristi del PCI che non vi raccomando”, ascrive la sconfitta alla pregiudiziale anti-socialista che avrebbe animato l’alleanza dei Progressisti. Accusa ingiusta per l’ex segretario del PDS, “provocata dall’ostilità verso Bettino Craxi che aveva portato al tracollo il PSI, tanto più assurda nei confronti di chi traghettò gli eredi del PCI nell’alveo del socialismo riformista occidentale”. All’altra imputazione – aver costruito un’alleanza ristretta e inadeguata allo scontro con il Cavaliere rifiutando l’apparentamento con i Popolari centristi guidati da Mino Martinazzoli – egli risponde che “allora i Progressisti presero più voti del Pd alle recenti elezioni, che al Senato il centro-destra non aveva prevalso e presto entrò in crisi aprendo la stagione dell’Ulivo poi tradita e stravolta grazie agli accordi sottobanco dei vertici del centro-sinistra. Che hanno salvato più volte e alimentato la fortuna politica di Silvio Berlusconi”.

La versione liberal di Petruccioli

A giudizio di Claudio Petruccioli, che del PDS volle rappresentare l’ala e l’istanza liberal con un approdo a un Partito democratico di tipo nordamericano, il fallimento della Svolta e le sconfitte politico-elettorali dei progressisti risiedono nella loro cultura. Anzi, in un’attitudine psicologica per cui “ieri come oggi si cambia idea solo perché muta la situazione e non per riconoscimento dei propri errori”. Le cause che determinarono la sconfitta della “Svolta” e di chi l’aveva concepita nella forma più innovatrice, rimarca l’ex presidente della Rai, sono le stesse che appesantiscono e chiudono in un vicolo cieco il Pd. “E l’emblema del persistere delle vecchie mentalità è proprio D’Alema”. Pertanto, conclude l’ex senatore dei DS, deve proseguire un percorso di rinnovamento interiore per realizzare la “conversione della sinistra” concepita a fine anni Ottanta: “A partire dal rapporto con la libertà e con le libertà, e da una visione globale in grado di sbloccare i meccanismi paralizzanti delle istituzioni italiane”.

La versione di sinistra di Mussi

Una consonanza di lettura si ritrova nel ragionamento di Fabio Mussi, che del PDS rappresentò il versante più “di sinistra” e poi non aderì al Pd privilegiando l’ingresso in Sinistra e Libertà: “Pensavo e penso tuttora che la Svolta sia stata un seme che i vertici di Botteghe Oscure non hanno voluto far germogliare. Mussi non assolve nessuno in un gruppo dirigente “che ha fallito non portando fino in fondo le promesse e le premesse del percorso avviato all’indomani della caduta del Muro di Berlino e delle realtà e dogmi del socialismo reale”. All’epoca Occhetto parlava di un “nuovo inizio” grazie all’apertura verso altre storie ed esperienze progressiste. Una “Costituente per l’alternativa” che potesse radicare nella storia italiana un grande soggetto unitario di sinistra. Ma figure come D’Alema, spiega l’ex ministro dell’Università, la interpretarono come necessità da digerire conservando anziché come scelta da percorrere con coraggio.

“E così nel 1994 scoprimmo che il fiume sotterraneo della destra italiana, che peraltro non ha mai fatto i conti fino in fondo con il fascismo, era riemerso grazie a un parvenu. L’ultimo sussulto di anelito riformatore spento con il convegno di Gargonza del marzo 1997 fu l’Ulivo di Romano Prodi, letto da D’Alema come la riedizione del Compromesso storico DC-PCI”. Il risultato è inevitabile: “Oggi non esiste forza progressista in grado di proporre come dopo il 1929 una radicale riforma del capitalismo globale. Tanto meno tra gli eredi del PCI, che nel tempo si sono uniti al coro pro-globalizzazione neutralizzando ogni pensiero critico. Salvo riscoprirsi rivoluzionari, compreso Matteo Renzi che parla di rivoluzione radicale e non solo liberale”.

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