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Tian’anmen, perché il governo cinese segue la pista terroristica

Lo schianto e l’esplosione di un suv lunedì in piazza Tian’anmen a Pechino sono stati un attacco terroristico. Termine usato per la prima volta dopo tre giorni in cui le versioni ufficiali avevano sempre fatto riferimento a un incidente.

La televisione di Stato Cctv ha confermato oggi l’arresto di cinque sospetti, avvenuto 10 ore dopo l’attentato. La matrice, stando ai nomi e ai particolari, non troppi, fatti trapelare, è quella del separatismo uiguro e dell’islamismo. La Cctv ha reso pubblici i nomi dei tre passeggeri dell’auto, morti nell’incidente in cui hanno perso la vita anche due turisti, uno cinese e una filippina.

Alla guida del mezzo che si è schiantato davanti alla Città proibita, nel luogo simbolo della capitale cinese, distante poche centinaia di metri da Zhongnanhai, il Cremilino cinese, c’era Usmen Hasan. Con lui in macchina sedevano anche la madre, Kuwanhan Reyim, e la moglie, Gulkiz Gini, tutti morti nel rogo.

Nessun gruppo ha al momento rivendicato l’attacco. Il magazine online The Diplomat sottolinea come la modalità dell’incidente, con la macchina lanciata sulla folla, ricordi quanto scritto su Inspire, una pubblicazione considerata vicina alla galassia qaedista. Testimoni hanno però raccontato alla stampa cinese che l’autista ha suonato a ripetizione il clacson, quasi a invitare i passanti a scansarsi e voler evitare una strage.

Sempre sul magazine australiano, Julia Famularo, esperta di minoranze della Repubblica popolare, esorta alla cautela perché quando si tratta di proteste e violenze la censura è attenta a quanto e cosa dire in pubblico.
Le notizie uscite oggi parlano di un tanica di benzina, una barra di metallo, coltelli e un drappo con “contenuti riconducibili all’estremismo religioso”, raccolti nell’auto. A casa degli altri cinque fermati sono stati trovati coltelli e una bandiera usata da forze jihadiste. Lunedì sembra quindi essersi concretizzato l’allarme per il rischio di episodi di violenza fuori dai confini dello Xinjiang, dove forti sono le tensioni tra gli uiguri, musulmani e turcofoni, e gli han.

Questi ultimi, gruppo etnico maggioritario in Cina e sempre più presente nella regione autonoma, di fatto controllano lo sviluppo di un’area del Paese che Pechino vuole trasformare in un hub per i rapporti con gli Stati dell’Asia centrale.

Nell’ultimo anno gli episodi di violenza tra uiguri e han e gli scontri con le forze di sicurezza hanno fatto decine di morti. Il mese scorso almeno 139 persone sono state arrestante con l’accusa di aver diffuso online messaggi inneggianti all’islamismo radicale. In questo contesto il pugno duro sulla regione è giustificato con la lotta contro il terrorismo.

I gruppi in esilio, come il Congresso mondiale uiguro, con sedi negli Usa e in Europa, chiedono tuttavia di non lanciarsi in interpretazioni affrettate. Il timore è che i fatti di Pechino diventino motivo di una nuova campagna repressiva e di militarizzazione di una regione in cui al malcontento per il timore della perdita della propria cultura e della tradizione si uniscono ragioni sociali ed economiche che rischiano di spingere altri ad azioni che il governo centrale può far diventare “attentati terroristici”

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