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Perché gli strappi di Alfano e Mauro non mi convincono del tutto

Le scissioni nascono sempre come atto di distinzione e quasi di purificazione politica, quando di politica si tratti. Chiunque si consideri autore o vincitore di uno strappo lacerante, dopo un po’ s’accorgerà d’aver aggiunto un altro tassello alla confusione; e che i radiosi destini immaginati in realtà potranno rivelarsi una svista clamorosa.

Prendiamo la scissione socialdemocratica del gennaio 1947, l’unica che, nella storia politico-istituzionale repubblicana, meriti rispetto. In un partito socialista unitario nato a ridosso della caduta di Mussolini per mano del re e di Badoglio, era chiaro al mondo che non potessero continuare a convivere socialisti che credevano nel laburismo democratico con socialisti che consideravano storicamente doveroso pensare ad una fusione coi comunisti di stampo staliniano. I primi con l’Occidente, i secondi con l’Oriente. I socialisti autonomisti per ogni forma di democrazia. I fusionisti per un fronte unitario delle sinistre aperto ad ogni sorta di autoritarismo, per lo meno simile, ma in realtà più violento, di quello fascista. Entrambi i gruppi erano convinti che, divisi, avrebbero complessivamente guadagnato consensi e potere. Il 18 aprile vennero tutt’e due ridimensionati dagli elettori. I socialdemocratici non furono apprezzati dai moderati e riportarono nella I legislatura meno della metà di deputati che avevano alla Costituente dopo la scissione. I fusionisti imprecarono contro la faziosità dei comunisti che, con la loro potente capacità organizzativa, li avevano inceneriti nell’uso delle preferenze.

Dato significativo da non dimenticare: effettuata la spaccatura, il leader scissionista, Giuseppe Saragat, che era presidente della Costituente, si dimise; il nuovo partito (il Psli) restò fuori dal successivo governo tripartito. I fusionisti si spostarono di settore nell’aula di Montecitorio accalcandosi in quello di estrema sinistra, guadagnarono ministeri, s’inventarono il frontismo nelle prime elezioni regionali siciliane assumendole a laboratorio politico nazionale. A fine 1947 costrinsero Togliatti, invero riluttante, a dar vita a quel fronte estremista mascherato col voto di Garibaldi nella convinzione di vincere le elezioni dell’aprile 1948, e invece perdendole: e non per una manciata di voti.

Di altre, più recenti scissioni, è doveroso parlare: quelle che provocarono Mario Segni, Mino Martinazzoli, Rosy Bindi, i clericali di Alberto Michelini, i moderati di Casini e Mastella, i popolari di Buttiglione e Marini, i cristiano sociali di Carniti, la Rete di Leoluca Orlando, tutti sino a poco tempo prima abbracciati dispettosamente nel medesimo partito, la Dc. Di cui in verità più nessuno conosceva le ragioni e le motivazioni della sua nascita, dovuta a De Gasperi, Gronchi, Grandi, Gonella, Piccioni, Malvestiti, Taviani. Da allora i politici di matrice cattolica si andarono progressivamente sfaldando e, anche negli ultimi due-tre anni a noi prossimi, hanno dato mostra di grandi personalismi e scarsa progettualità politica.

E qui veniamo all’oggi. Non è uno spettacolo invitante né allettante né apprezzabile quello di partiti, partitini e partitelli che, anziché aggregarsi, si frantumano ulteriormente per escludere qualcuno che li aveva creati, motivati e portati all’onore di ruoli eminenti. Molti hanno già, correttamente, osservato che, rinunciando ad un dialogo difficile e scegliendo lo scisma, in realtà si è fatto il gioco di un’altra chiesa anch’essa in preda a divisioni non chiare, cariche di veleni: esempio pessimo per le nuove generazioni, cui si offrono soltanto esempi di opportunismo, rissosità, disprezzo delle regole democratiche interne ed istituzionali.

Per lo meno Berlusconi, un personaggio che mantiene lucidità malgrado gli attacchi interni e nemici, nel prendere atto della nuova rottura del partito cui aveva dato vita, ha fatto notare due dati innegabili. Il primo: i sondaggi confermano che, dinanzi a questi spettacoli indecorosi, metà degli italiani scelgono l’astensionismo. Secondo: l’altra metà si divide in tre parti equivalenti, in aggiunta a formazioni minori di destra e di sinistra, sicché per governare, non essendo possibile guidare le istituzioni con meno del 30 per cento dei seggi parlamentari, diventa inevitabile ricorrere a grandi intese, cioè ad alleanze fra diversi e opposti. Domanda ovvia: a beneficio di chi vanno gli strappi fra moderati? Non si sfugge: o alle sinistre o al movimentismo grillino, oppure ad una coalizione di sinistra cui si aggiungano decine di dissidenti del M5S.

Davvero si pensa che, così agendo, si lavori per assemblare un nuovo tipo di democrazia cristiana? Se questo fosse il “grande disegno”, è certo che ci si riaggrega per rapidamente disaggregarsi o disilludersi. Anche perché altri soggetti stanno entrando in campo: i moderati di Passera e i moderatissimi della recuperata Democrazia cristiana di Gianni Fontana. I giocarelli di potere, invece, finiscono sempre col durare lo spazio d’un mattino.

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