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L’Nsa sullo spionaggio dei videogiochi rischia la paranoia

Lo scandalo “Datagate” si arricchisce di un nuovo capitolo, passando dal mondo reale a quello virtuale. Sulla base delle nuove rivelazioni dell’ex contractor Edward Snowden al Guardian, poi condivise con il New York Times e Pro Publica, l’Nsa statunitense e l’agenzia omologa britannica (il Government Communications Headquarters, Gchq) oltre a controllare le vite di milioni di persone reali, avrebbero spiato anche gli “avatar” in alcuni videogiochi.

Le informazioni raccolte riguardano “World of Warcraft”, “Second Life”, e altri videogiochi di ruolo online (tra cui anche dati della console Xbox Live), che permettono la creazione di personaggi virtuali all’interno alla piattaforma di gioco, in grado di interagire con gli altri giocatori. Dalle documentazioni trasmesse da Snowden, si apprende che le motivazioni per cui le intelligence avrebbero deciso di entrare nei mondi virtuali, sono legate alla paura che le reti terroristiche e criminali potessero usare i giochi online per comunicazioni segrete, organizzazione di attentati e spostamenti di denaro. Partendo da queste supposizioni, i funzionari inglesi e americani hanno creato personaggi di fantasia per controllare milioni di persone anche nelle loro vite virtuali.

La base operativa utilizzata dagli agenti, sarebbe stata quella della Royal Air Force di Menwith Hill, nella campagna dello Yorkshire, da dove unità congiunte avrebbero operato fin dal 2008. In qull’anno il Gchq avrebbe aiutato la polizia londinese nel bloccare una rete malavitosa che utilizzava la realtà virtuale di “Second Life” per appropriarsi dei dati della carte di credito degli utenti – l’attività passò sotto il nome di “Operation galician“. Ma da quanto rivela il New York Times,
il Pentagono aveva identificato il valore potenziale dei videogiochi già da prima, con lo Special Operations Command – braccio del Pentagono incaricato di gestire le varie operazioni speciali condotte dall’esercito, dall’aeronautica, dalla marina o dal Corpo dei Marines – che tra il 2006 e il 2007 aveva lavorato a fianco di aziende straniere al fine di sviluppare metodi per controllare gli utenti dei giochi online. In quegli anni, a quanto pare l’Nsa incontrò il chief technology officer della Linden Lab di San Francisco – azienda produttrice di Second Life. Il CTO era Cory Odrejnka, ex ufficiale di Marina che aveva già collaborato con l’Nsa e che parlò ai membri dell’agenzia dei problemi connessi alla realtà di “SL”, proprio in un incontro a Fort Meade, Maryland, sede della National Security Agency. Odrejnka, adesso direttore della mobile engineering a Facebook, ha commentato che in quell’occasione si era trattato di un seminario come tanti altri e che non era a conoscenza delle attività rivelate da Snowden.

Chiamata indirettamente in causa, anche la Blizzard Entertainment – società che ha sviluppato “World of Warcraft” – ha sottolineato al quotidiano newyorkese che le agenzie «non hanno ricevuto alcun permesso per spiare i giocatori» anche perché «molti di questi sono americani, che possono essere controllati solo con il permesso del Foreign intelligence surveillance court» – il tribunale segreto istituito dal Foreign intelligence surveillance act.

Intanto sulle nuove rivelazioni, oltre alle problematiche relative al rispetto della privacy, resta un ulteriore dubbio. Infatti, sebbene secondo i leaks di Snowden già nel 2008 l’Nsa avrebbe identificato alcuni giocatori potenzialmente pericolosi, la questione sollevata anche dai giornali, è che il valore effettivo della minaccia potrebbe essere stato ingigantito dalle agenzie di intelligence: anche perché, secondo quanto scrive lo stesso New York Times, «non sembra che l’ingresso nei mondi virtuali abbia portato dei risultati».

Sull’utilità di questo genere di attività di spionaggio, l’autore del libro sulla sicurezza informatica “Cybersecurity and cyberwar: what everyone needs to know”, Peter Singer della Brookings Institutiong – storico think thank di Washington – ha spiegato al Nyt che «i videogiochi sono creati dalle aziende per fare soldi; le identità e le attività dei giocatori sono monitorate» e ha aggiunto che «per i gruppi terroristici che cercano di tenere segrete le comunicazioni, ci sono modi più semplici ed efficaci per farlo, senza bisogno di creare un avatar».

Ed è proprio intorno al continuo monitoraggio da parte delle aziende sviluppatrici – che fungono da moderazione dei contenuti e controllo della legalità delle attività durante il gioco – che si può ragionare sul come i mondi virtuali di questo genere, non sembrano i più “comodi e sicuri” per i terroristi. Perché se è vero che si è disposti a rinunciare a un pezzetto – anche corposo, al limite – di privacy, in virtù della sicurezza, la questione dello spionaggio dei videogame rischia di confinare l’argomento in un dimensione paranoica del controllo.

 

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