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Pd, cosa cambia con la vittoria di Renzi

La vittoria di Renzi è stata giudicata eccezionale da più parti: chi ha parlato di fine della sinistra, chi semplicemente di fine dell’egemonia ex-PCI, qualcuno ha sottolineato l’aspetto della rottamazione, altri, ancora le distanza di Renzi (comunicativo e guascone) dalle figure classiche dei leader di sinistra.
Naturalmente, molto dipende dal giudizio politico che si dà del personaggio. È però innegabile un senso di passaggio epocale, rafforzato anche dal buon risultato di Pippo Civati. Le primarie portano in primo piano una generazione nuova che non è stata cooptata ma si è conquistata sul campo la legittimità.

Il vero punto di svolta, sta però nel modo in cui si è giunti al voto dell’8 dicembre. A ben vedere, il Secondo congresso del Pd era iniziato bene prima di settembre (quando è stato convocato). Il confronto interno al partito risale almeno ad un anno fa, ed è stato per la prima volta uno scontro vero.

Nel 2007 Veltroni vinse su una linea politica per alcuni aspetti simile a quella renziana, ma il suo risultato fu frutto di un accordo trasversale preventivo tra i diversi gruppi dirigenti ed i possibili avversari, Bersani in primis. Proprio Bersani vinse nel 2009 un congresso equilibrato e combattuto. Anche allora, però, il conflitto rimase confinato all’interno di un gruppo dirigente omogeneo che, non a caso, immediatamente dopo il congresso avviò una gestione collegiale del partito.

La competizione che si è aperta l’anno scorso ha avuto caratteristiche bene diverse. La sfida che Renzi lanciò a Bersani, vedeva per la prima volta il confronto tra due gruppi dirigenti diversi per storia, profilo personale e prospettive politiche. L’eterogeneità dei soggetti in campo fu la principale causa di scontro, mostrando un grande deficit di legittimazione reciproca tra le diverse anime del partito.

In seguito alla sconfitta elettorale, molti dirigenti democratici hanno scelto di appoggiare il Sindaco di Firenze. Ciò nonostante le caratteristiche fondamentale del confronto non sono mutate. Il congresso 2013 ha visto in campo tre diversi gruppi dirigenti, rappresentati da leadership diverse, caratterizzati da diverse culture e prospettive politiche. Questa volta però, il dibattito congressuale ha visto affermarsi progressivamente una legittimazione reciproca, tutt’altro che scontata all’inizio: per capirlo basta pensare a quante volte si è parlato di “rischio scissione” nei mesi scorsi.
In questo senso il 2013 è davvero l’anno zero del Pd. Non solo e non tanto perché viene superata una classe dirigente, ma soprattutto perché l’organizzazione ha finalmente fatto propria una cultura del confronto democratico-liberale, per molti aspetti estranea alla sinistra italiana.

Simone Tedeschi, responsabile della ricerca empirica di Epoké

 

 

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