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Scontri alla Sapienza, perché i miei coetanei sbagliano bersagli e slogan

Sarebbe stucchevole commentare le proteste che esplodono in tutta Italia con la solita tirata un po’ borghese e bacchettona della violenza che fa male, ma che le persone vanno aiutate. Tutto già detto, visto, sentito, insomma scontato. Il malessere che aleggia nel Paese è rabbioso, affamato, infiammato, ma le soluzioni sembrano andare in un verso che è la causa della situazione in cui siamo.

Mi riferisco, da dottorando, in particolare ai colleghi della Sapienza che in questi momento si stanno scontrando con la polizia. Le risposte dei protestanti sono sempre le stesse da vent’anni: più Stato, più spesa pubblica, cattiva politica, tremenda globalizzazione da combattere. Ciò che mi sembra evidente è che, invece, da vent’anni lo Stato spende troppo e male: perché le amministrazioni delle università non si sono digitalizzate? Perché si continuano a fare concorsi spesso truccati? Perché i Professori universitari possono continuare ad insegnare fino a 72 anni e spesso oltre con corsi costruiti ad hoc? Per quale motivo le università italiane sono così povere di stranieri e così pieni di espatri?

A me pare che ciò che non funzioni sia da imputare a una politica che spende più per mantenere il consenso del corpo docente e amministrativo che per gli studenti, veri destinatari di quel servizio. Ha avuto senso moltiplicare le sedi universitarie in questi anni? Ampliare a dismisura il numero dei corsi e delle facoltà per far riprodurre per scissione migliaia di cattedre che i baroni smistano ai propri assistenti? Nel posto in cui sono cresciuto, una cittadina di 33mila abitanti nell’Appennino marchigiano. hanno aperto un’università che ha avuto per dieci anni non più di 30 iscritti l’anno. Quella struttura edilizia non poteva essere utilizzato per altro o magari venduta a privati ricavando dalla vendita denari pubblici da impiegare altrove? Le questioni irrisolte si moltiplicano, come le lauree triennali in questi tempi.

Un altro punto da discutere mi pare quello delle rette: lo Stato spende 7mila euro a studente e le rette raramente superano i 3mila euro. Il reddito famigliare considerato per la retta massima è troppo basso. Perché il figlio di un milionario dovrebbe pagare 3mila euro come il figlio di chi guadagna 50mila euro l’anno, è qualcosa d’incomprensibile. Una soluzione potrebbe essere liberalizzare le rette universitarie dando agli atenei una maggiore autonomia nello stabilire la retta rispetto alle regolamentazioni ministeriali. Questo significherebbe maggiore disponibilità delle università nel far pagare di più chi può e nell’utilizzare quei soldi per finanziare borse di studio. Non solo, vuol dire anche dare maggiore accountabilty, cioè responsabilità di bilancio ai singoli atenei.

Questa misura dovrebbe essere accompagnata da un’operazione trasparenza nei conti: voglio sapere come e dove spende un ateneo prima di iscrivermi. Un’altra chiave è quella di favorire il coinvolgimento di privati tanto nel finanziamento delle scholarship quanto nelle realizzazione delle strutture universitarie o nella sponsorizzazione delle stesse. Investire in capitale umano è essenziale per il sistema produttivo e i finanziatori privati che investono in istruzione avrebbero un ritorno qualitativo e di sviluppo non trascurabile in pochi anni. Considerata la tendenza ad internazionalizzare delle imprese, le risorse stanziate da privati potrebbero potenziare lo studio delle lingue o le risorse per i visiting student che vanno e che vengono. Questo permetterebbe non solo di favorire la globalizzazione delle aziende italiane, ma anche dei saperi accademici e dello sviluppo di modelli più efficienti grazie ad interazione e comparazione con l’estero.

Ovviamente è impossibile trattare in maniera approfondita un tema tanto complesso e per cui mi limito a qualche riflessione e spunto. L’idea generale però è che la protesta studentesca da tempo sbagli le proprie domande. Non limitarsi a chiedere più spesa per l’università, ma chiedere più libertà per gli atenei, scelte più consapevoli da parte degli studenti, meno spesa mirata ad accontentare i gruppi accademici, maggiore qualità negli investimenti e trasparenza nelle operazioni.

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