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Perché Napolitano rimbrotta Renzi (senza citarlo…)

Più che Silvio Berlusconi, pur invitato esplicitamente ad evitare “estremizzazioni” nella polemica e nella lotta politica, con quei continui richiami ai colpi di Stato che ne avrebbero alla fine causato condanne giudiziarie e decadenza dal Senato, è stato il nuovo segretario del Pd Matteo Renzi il destinatario, per quanto non nominato, dei più incalzanti e significativi moniti del presidente della Repubblica nell’incontro augurale di fine anno con le autorità dello Stato.

A Renzi e a nessun altro poteva alludere, in particolare, il capo dello Stato quando ha osservato che “le sorti del governo poggiano sulle sue forze e sono legate al rapporto di fiducia con la sua maggioranza”. E’ Renzi che anche nel discorso di insediamento alla segreteria davanti all’assemblea nazionale del Pd ha mostrato insofferenza, a dir poco, verso il Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano e le altre componenti minori della maggioranza. Che sempre lui, Renzi, si propone di scavalcare o di rimettere in riga sulla strada delle riforme e degli altri adempimenti cercando convergenze anche alternative con settori dell’opposizione: dal pur odiato Berlusconi al pur “buffone” Beppe Grillo, dalla Lega ora guidata da Matteo Salvini alla sinistra di Nichi Vendola.

Il monito di Napolitano contro il rischio di una crisi finalizzata ad elezioni anticipate, da lui non condivise per il loro “esito più che dubbio”, risulta rafforzato dalla minaccia che egli ha sostanzialmente rinnovato di dimettersi se il quadro politico dovesse precipitare e qualcuno pensasse, nella maggioranza e fuori, di forzargli la mano per un altro scioglimento prematuro delle Camere.

Una interpretazione diversa dalla minaccia delle dimissioni non è possibile valutando bene “la riserva” espressa da Giorgio Napolitano di “valutare” la compatibilità degli sviluppi della situazione politica con le “condizioni” da lui poste con estrema chiarezza alle forze politiche, e ribadite poi davanti alle Camere, nel momento in cui gli chiesero nello scorso mese di aprile di accettare una rielezione al vertice dello Stato. Alla quale egli aveva precedentemente espresso un’argomentata indisponibilità, accantonata solo di fronte al grave e rovinoso stallo politico e istituzionale in cui i maggiori partiti riconobbero di essere finiti mancando l’elezione di un successore nelle prime votazioni svoltesi a Montecitorio. Uno stallo peggiorato dagli infruttuosi tentativi compiuti sino ad allora di formare un nuovo governo dopo le elezioni politiche di fine febbraio.

In questo contesto, peraltro comprensivo del “rischio di scosse sociali” che grava sul Paese per effetto della crisi economica, Napolitano ha voluto far sentire alta e forte anche la sua protesta contro gli “spudorati” tentativi politici e mediatici di attribuire la sua rielezione al Quirinale ad un piano da lui stesso preordinato, dietro le quinte di un’apparente indisponibilità. Una protesta più che condivisibile, questa del presidente della Repubblica, al quale probabilmente non è sfuggito neppure il fatto che Renzi nel discorso di insediamento o incoronazione alla segreteria del Pd non abbia sentito né il dovere né la cortesia istituzionale e personale di rivolgere un saluto al capo dello Stato.

Nei riguardi di Napolitano, d’altronde, il sindaco di Firenze aveva precedentemente espresso critiche, per esempio commentando il messaggio alle Camere per l’amnistia e/o l’indulto per uscire dall’emergenza del sovraffollamento delle carceri: tema, questo, che il presidente della Repubblica ha risollevato nel discorso augurale di fine anno alle alte autorità dello Stato.

Renzi alla vigilia della sua elezione a segretario del Pd aveva anche precisato di nutrire per Napolitano “rispetto, non venerazione”: quella evidentemente rimproverata ad altri dirigenti del partito, forse gli stessi che chiesero a Napolitano nella scorsa primavera di accettare la rielezione. E ne raccolsero poi le indicazioni per un governo di “larghe intese” guidato da Enrico Letta.

Francesco Damato

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