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Capo o leader?

La garbata disputa filologica fra Eugenio Scalfari e Ernesto Galli Della Loggia sulla differenza fra capo e leader è tutt’altro che una questione di lana caprina. Intanto perché i due termini hanno effettivi significati diversi. Soprattutto in quanto si adottano entrambi in situazioni diverse oltre che per proporre sistemi politici anche fortemente affini. La ragione della disputa naturalmente non è banale; e va dunque letta in relazione al futuro prossimo della politica nazionale, ma avendo riguardo, non insignificante, alle esperienze recenti come a quelle un tantino più remote. Sicché più della diversità fra un capo che comanda e decide (figura tipica dei regimi autoritari e totalitari, e tuttavia presente anche in sistemi democratici classici) e un leader che in primo luogo è costretto a convincere per potersi assicurare un rilevante prestigio accompagnato da consenso e una egemonia finalizzata al comando, la questione è in effetti una conseguenza, oltre che del modello ordinamentale utilizzato in uno Stato, della cultura politica che ispira il modello adottato, nonché della storia che gli sta alle spalle, non in astratto ma in concreto.

La disputa tra Scalfari e Della Loggia non è infatti teorica. Fa riferimento al punto di svolta istituzionale cui è giunto l’attuale momento storico italiano. Punta ad approfondire le ragioni di un passato non glorioso perché si evitino abbagli e non si cada, pur non volendolo, in un vicolo buio, oltretutto già vissuto. Il reale punto di avvio della disputa fra i due illustri politologhi è il significato del renzismo: movimento riformatore o avanguardismo generazionale che nega tutto ciò che va oltre quei giovani che si autopromuovono come i politici di domani e del dopodomani?

In fondo Scalfari e Della Loggia manifestano la medesima preoccupazione: che il nuovo che avanza possa non solo essere meno funzionale alla realtà nazionale rispetto alla classe politica fin qui maturata e che si vuole comunque fare decadere ed emarginare, ma somigli un po’ troppo al rivoluzionarismo fascista, che diede il potere ad un capo indiscutibile, considerando il leader quasi un sinonimo di vecchiume democratici­sta.

Presumo che la disputa non si arresterà; e, anzi, mi auguro che altri soggetti vi s’insinuino con osservazioni non meno autorevoli. Noto ad esempio che Luciano Canfora addirittura anticipa il tema della legge elettorale da introdurre per una legislatura riformatrice (Canfora propone il ripristino del proporzionale, dati i fallimenti del mattarellum e del porcellum abrogato dalla Consulta). Ma non sarebbe deviante rammentare che, dietro il giovanilismo dei fasci di combat­timento, non c’erano soltanto gli avventurosi nazionalisti dannunziani, mentre molto maggiore rilievo generale – peraltro non violento – era manifestato dal futurismo di Marinetti, al quale sembrò per una non breve fase essersi convertita buona parte degli intellettuali impegnati degli anni Dieci e Venti. Quella cultura adorava il capo e considerava superato il leader. E non intendeva fermarsi ad una semplice distinzione lessicale. Come purtroppo fu.

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