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Amici di Confindustria, prendete esempio da Machiavelli. I consigli del “Principe” Marchionne

Autorità,
Signore e Signori,
buongiorno a tutti.
Vorrei ringraziare in particolare il presidente Simone Bettini per avermi invitato alla vostra assemblea, che mi dà l’opportunità di condividere con voi alcune riflessioni, sulla trasformazione della Fiat nel corso dell’ultimo decennio e anche sul momento storico che stiamo vivendo in Europa e, in particolare, in Italia.
Prima, però, permettetemi una breve premessa.
Come anche il titolo di questa assemblea dimostra – “Firenze at work” – l’inglese oggi esercita un’influenza quasi pervasiva sulla maggior parte delle lingue.

Espressioni in inglese si trovano ormai ovunque.
Nel mio intervento di oggi non ne sentirete alcuna.
Ho fatto molta attenzione a rimuovere ogni riferimento all’inglese, per evitare di essere frainteso.

L’ultima volta che è successo, ha avuto un pesante impatto su questa città e sui suoi abitanti, provocando un certo numero di reazioni da parte dei fiorentini.
Ricorderete che a ottobre dell’anno scorso mi sono state attribuite parole sconsiderate, che avrei usato a Bruxelles per descrivere la città di Firenze.
Non io, ma qualcuno dei presenti, in una sala da pranzo, ha usato l’espressione “pretty, old town”, che è stata registrata da un cosiddetto giornalista, malamente tradotta e addossata a me.
Chi mi ha attribuito quei giudizi ha fatto, come si direbbe qui, una “bella bischerata”.
Ho dovuto acquistare una pagina intera sul quotidiano La Nazione per spiegare che non ho mai detto quello che tutti credevano avessi detto.

Ora, per emendare fino in fondo una colpa che non ho mai commesso, potrei svolgere un trattato sul valore di Firenze, sull’importanza di una città che – per arte, cultura e scienze – non ha eguali al mondo.

Ma mi prenderebbe un paio di giorni, e poi qualcuno direbbe che voglio spostare qui la sede della Fiat.
E allora avrei bisogno di comprare un’altra pagina di giornale, stavolta sulla Stampa, per spiegare che il mio era un omaggio a Firenze e non una dichiarazione di guerra a Torino.
O forse – per chiudere definitivamente la questione – potremmo tutti consolarci tenendo a mente le parole di Oscar Wilde: “Si vive in un’epoca in cui solo gli ottusi vengono presi sul serio, e io vivo nel terrore di non essere frainteso”.

* * *

Veniamo ora agli argomenti seri.
Non possiamo nasconderci che stiamo vivendo in una fase d’emergenza, un periodo di crisi che richiede interventi rapidi e incisivi.

Come ha detto il presidente Napolitano, nel suo discorso d’insediamento: “Non si può più, in nessun campo, sottrarsi al dovere della proposta, alla ricerca della soluzione praticabile, alla decisione netta e tempestiva per le riforme di cui hanno bisogno improrogabile per sopravvivere e progredire la democrazia e la società italiana”.

Prima di portarvi il mio punto di vista sulle cause della crisi italiana e su cosa le imprese, il Governo e le parti sociali possono fare per capovolgere questo destino, vorrei fosse chiara una cosa.
Non vi parlo da economista, né tanto meno da politico.
Il mio – come il vostro – è un mestiere totalmente diverso.
Noi siamo industriali.
Siamo gente che si confronta tutti i giorni col mercato e con la concorrenza, che subisce gli effetti di un Paese bloccato, che lavora per proteggere le proprie aziende in tempi di crisi e andare a cercare le occasioni di crescita là dove ci sono.
I miei sono i commenti di chi ha speso tutta la sua vita professionale lavorando in giro per il mondo, che ha avuto la possibilità di vivere in altri Paesi, di vedere come funzionano e come reagiscono alle crisi.
Questa è l’esperienza che abbiamo introdotto in Fiat e che ha spinto la nostra azienda a cambiare radicalmente e in profondità in meno di un decennio.
La Fiat di oggi non è più quella che molti italiani ricordano.
E’ cambiata nella struttura, nella dimensione economica, nell’estensione geografica e nel peso che ha all’interno del settore automobilistico mondiale.
La realtà che ho conosciuto a partire dal 2004 non esiste più.
Il modo più immediato per comprendere quanto profondo sia stato questo cambiamento, è considerare il profilo del nostro Gruppo – in particolare delle attività automobilistiche – nel 2004 e nel 2012.

Il grafico a sinistra parla di un’azienda che allora era totalmente sbilanciata verso un’unica area geografica.
Fatturava 27 miliardi di euro, di cui il 92 per cento in Europa.
I dipendenti, senza contare le attività che oggi ricadono sotto Fiat Industrial, erano poco più di 100.000, oltre la metà concentrati in Italia.
La presenza al di fuori dell’Europa era limitata al Sud America, sostanzialmente al solo Brasile.
Nella classifica dei costruttori mondiali, Fiat occupava l’undicesima posizione, poco lontana da Suzuki: era un produttore di auto dalle dimensioni modeste, che vendeva circa 1 milione e 800 mila vetture l’anno.
Ma, soprattutto, era un’azienda in profondo rosso, sull’orlo dell’estinzione.
A livello operativo, le perdite erano di circa 1,3 miliardi di euro, tutte concentrate in Europa, con un sostanziale pareggio in America Latina.
La Fiat di oggi è anni-luce lontana da quell’immagine.

E’ un Gruppo che ha una presenza ampia e diversificata sui mercati di tutto il mondo.
Il fatturato nel 2012 è salito a 84 miliardi di euro, più che triplicato rispetto al 2004.

Il nostro giro d’affari è distribuito in modo più equilibrato rispetto ad allora, con l’Europa che nel complesso pesa poco più del 20 per cento.

I dipendenti nel mondo – sempre escludendo quelli di Fiat Industrial – sono 215.000, più del doppio rispetto al 2004, di cui circa il 40 per cento in Europa, un terzo in Nord America e un quarto in America Latina.

In termini assoluti, tra il 2004 e il 2012, il numero dei lavoratori Fiat in Europa è aumentato di circa 15.000 persone.
Insieme a Chrysler, nel 2012 abbiamo venduto più di 4,2 milioni di veicoli l’anno e siamo diventati il settimo costruttore mondiale, alle spalle di Ford.

La Fiat di adesso è un’azienda capace di generare significativi profitti operativi, nonostante le perdite collegate ai marchi generalisti in Europa.
* * *
La verità è che negli ultimi nove anni abbiamo creato dalle potenziali ceneri di un costruttore italiano un gruppo automobilistico con un orizzonte globale.

Lo abbiamo fatto attraverso passaggi successivi, che sono stati cruciali nella storia di risanamento e poi di espansione della Fiat.
Erano passaggi necessari, perché il mondo era cambiato radicalmente e Fiat doveva cambiare e adeguarsi, per sopravvivere.
Il primo, nella fase di emergenza, è avvenuto proprio nel 2004, quando abbiamo cambiato l’azienda dall’interno, nella struttura e nella cultura, ridandole il senso della sfida e della competizione che in qualche modo si erano persi.

Poi, di fronte alle difficoltà crescenti del mercato europeo – che con il tempo si sono aggravate a causa di una più ampia crisi economica – abbiamo compiuto un’altra scelta chiave.
Abbiamo deciso, in anticipo rispetto alla maggior parte dei nostri concorrenti, di rafforzare la nostra presenza nell’America Latina. E poi di intraprendere una straordinaria avventura con la Chrysler, un’azienda che noi abbiamo ricostruito dalle ceneri del tracollo dell’industria automobilistica americana.
Tutto ciò assumendoci dei rischi enormi.

Siamo andati a cercare altrove quei profitti che chiaramente non era più possibile ottenere in Europa.
Era l’unica strada per preservare il futuro della Fiat.
I dati sulle vendite, che sono arrivati la scorsa settimana, confermano, per l’ennesima volta, i benefici di quella scelta.
Negli Stati Uniti, con l’aumento registrato a maggio, abbiamo segnato 38 mesi di crescita consecutivi.

In Canada abbiamo appena raggiunto un nuovo record nella storia del settore auto, con il più lungo periodo di miglioramento – 42 mesi consecutivi.
In Brasile, a maggio abbiamo registrato il migliore mese nella storia dei nostri 37 anni di presenza nel Paese, rafforzando la posizione di testa che deteniamo da undici anni.
Nonostante questo, la Fiat è considerata ancora da molti, nel nostro Paese, un’azienda prettamente italiana, che si trascina dietro tutti i pregiudizi di venti o più anni fa.

Pregiudizi sulla qualità dei prodotti, sull’ingerenza in politica, e quella – ancora più assurda – di vivere alle spalle dello Stato, con soldi e aiuti pubblici.
La verità è che dal 2004 alla fine del 2012, Fiat e Fiat Industrial hanno destinato all’Italia, per investimenti e attività di ricerca e sviluppo, 23,5 miliardi di euro.

A fronte di questo enorme sforzo, abbiamo ricevuto agevolazioni pubbliche, previste dalle norme italiane ed europee, pari a circa 742 milioni di euro.
Agevolazioni peraltro disponibili a tutte le aziende europee.
Questo significa che abbiamo creato lavoro e benessere, e che continuiamo a investire e credere nell’Italia.
A volte succede che quando si vede un figlio diventare grande, si abbia difficoltà a comprendere e ad accettarne il cambiamento, a vederlo nel ruolo di persona matura.
E, in modo più o meno consapevole, si smette di capirlo.
Così spesso è anche nel rapporto tra l’Italia e i suoi cittadini verso la Fiat.
Siamo un gruppo automobilistico mondiale, capace di competere con i migliori del settore.
Riceviamo premi e riconoscimenti internazionali per la qualità e lo stile dei nostri prodotti.
Ma non siamo riusciti a convincere neppure il primo cittadino di Firenze, che preferisce guidare una vettura straniera.

Nemmeno per la sua campagna elettorale ha scelto un camper italiano, benché siamo i primi produttori europei, in questo segmento di mercato, con una quota superiore al 70 per cento.

E poi dovete sapere che questo camper, nonostante porti un marchio straniero, è italiano. Costruito da operai della Fiat nel nostro stabilimento Sevel in Val di Sangro.
Quindi, un caso di esterofilia di ritorno.
La colpa è senza dubbio nostra.
Il ritmo del cambiamento che la Fiat ha seguito è stato così veloce che, in qualche modo, ha contribuito ad ampliare la distanza col Paese.

E noi non siamo stati in grado di trasmettere agli italiani il senso di questo cambiamento.
Così, per molti, questa è rimasta mamma-Fiat, vecchiotta, fuori moda e un po’ ingombrante, di cui nei discorsi da bar si parla come fosse un peso.
Il che mi fa pensare a cosa disse Mark Twain: “Quando avevo 14 anni, mio padre era tanto ignorante che mi dava fastidio averlo attorno. Ma quando ne compii 21, fui sorpreso nel vedere quanto avesse imparato in sette anni”.

Tutti quanti cresciamo.
Se la Fiat si è trasformata ed è cresciuta nel mondo, è stato solo per porre fine ad un isolamento che ne avrebbe pregiudicato il futuro.

Lo abbiamo fatto per diventare più forti, più capaci, più consapevoli delle nostre possibilità.
E questa non può essere una colpa.
Se oggi ci fosse ancora la Fiat di una volta, avremmo già portato i libri in tribunale da un pezzo.

* * *

Come ho già detto, l’Italia oggi si trova in una fase critica.

Ma non sono venuto qui a tracciarvi un quadro fosco, né a farvi l’elenco di problemi che conoscete fin troppo bene.
Credo sia molto più utile riflettere su come siamo arrivati a questo punto e su cosa si può fare per cambiare le cose.
Dal mio punto di vista, l’attuale crisi dell’Italia è il risultato di due semplici fatti.

Il primo ha a che fare con l’esperimento – largamente incompleto – dell’Unione Europea.

Abbiamo creato un mercato unico e una moneta comune, con l’obiettivo di porre fine all’instabilità politica che ha caratterizzato la storia europea per centinaia di anni, sfociata nel tragico finale della seconda guerra mondiale.
Ma la mancanza di un governo europeo dell’economia ha reso la nostra unione incompiuta e vulnerabile.
Abbiamo lasciato ai singoli stati membri la facoltà di decidere come governare se stessi.

Abbiamo lasciato loro anche la libertà di scegliere come gestire il loro bilancio per attenersi ad alcuni requisiti di base, quali il livello del deficit, del debito pubblico, il rapporto tra debito e PIL.
I divieti e le sanzioni contenuti nel Trattato di Maastricht e nel Patto di Stabilità non hanno mai dato garanzie sufficienti ad impedire ai Paesi membri di deviare dagli obiettivi concordati.
L’illusione di fondo era che la stabilità sarebbe stata garantita dall’impegno e dalla responsabilità delle singole nazioni.

Tutti sappiamo com’è andata a finire.
Il Patto di stabilità – già debole di per sé, e reso ancora più morbido con le modifiche del 2005 – si è rivelato più un augurio che un vincolo serio.
Inoltre, sono mancate la convergenza e l’adesione su alcuni aspetti essenziali della vita dell’Unione Europea, a cominciare della natura del nostro stato sociale.
Questo ci ha portati ad una situazione in cui, su temi di vitale importanza – quali sono le pensioni, le norme che regolano il mercato del lavoro, le indennità di disoccupazione – ognuno segue la propria strada, creando un insieme di realtà diverse e totalmente disomogenee tra loro.

E, cosa ancora più grave, è stata lasciata alla discrezione degli stati membri la scelta su quante risorse destinare al mantenimento dello stato sociale, e su come impiegarle.
Questo è il punto dolente nell’Europa di oggi, ed è anche il motivo per cui tanti dei nostri sistemi di protezione sociale sono completamente sbilanciati e hanno perso la loro efficacia.
Il compito che grava oggi sull’Europa è capire se vuole compiere un salto di qualità per rafforzare la natura della sua unione.
A tal fine, gli stati membri devono superare le loro opposizioni nazionali, rinunciare a una parte della loro sovranità per rendere l’Unione più forte, e concordare un approccio condiviso per gestire l’economia.

Penso che questa sia l’unica rotta possibile per uscire dall’era dell’incompletezza dell’Europa ed evolversi verso una natura più matura.
Dobbiamo riscoprire le matrici e gli ideali del vero europeismo, quello che ha come obiettivo la creazione degli Stati Uniti d’Europa.
Circa 60 anni fa, uno dei padri della Repubblica italiana, Luigi Einaudi, scrisse che “Nella vita delle nazioni di solito l’errore di non saper cogliere l’attimo fuggente è irreparabile. La necessità di unificare l’Europa è evidente. Gli Stati esistenti sono polvere senza sostanza. Solo l’unione può farli durare. Il problema non è fra l’indipendenza e l’unione; è fra l’esistere uniti e lo scomparire…”.

Oggi, tutti i problemi di un progetto incompleto sono venuti al pettine.

* * *

La seconda ragione per cui l’Italia si trova nella condizione attuale riguarda il fatto che, pur avendo avuto a disposizione enormi benefici dell’adesione all’euro, ha sprecato una grande opportunità.
Come si vede chiaramente da questo grafico, dal momento in cui abbiamo avuto la certezza dell’introduzione dell’euro, abbiamo potuto contare su tassi di interesse molto bassi sul nostro debito pubblico.

Ma da allora non siamo stati in grado di sfruttare il vantaggio guadagnato con l’adozione della nuova moneta.
La spesa pubblica, al contrario, ha continuato ad aumentare, assorbendo quasi la metà della ricchezza prodotta dal Paese.

Non abbiamo adeguato il nostro sistema di protezione sociale ai cambiamenti del mondo e della società.
Non abbiamo modificato la struttura dei costi di gestione del Paese.
Non abbiamo approvato nessuna riforma davvero di sostanza, al di là di quella sulle pensioni.
Ci troviamo oggi con un sistema obsoleto che non è più in grado di assicurare un Paese competitivo.
Andare alla ricerca del responsabile non serve a nulla.
Lo siamo tutti.
Chi ha governato il Paese, è responsabile.
Chi è stato chiamato per aiutare a scrivere le politiche di gestione del Paese, è responsabile.
Chi si è reso complice dell’inerzia, inclusi tutti noi, è responsabile.
Ma puntare il dito sull’uno o sull’altro non renderà le cose più facili e, di certo, non servirà a trovare una soluzione.

Fino a quando continuerà la caccia alle streghe, non faremo altro che sprecare un sacco di tempo in questioni inutili.
Altrettanto inutile è additare la Germania come la fonte dei nostri mali.

Loro hanno trovato una strada per diventare competitivi.
Dopo l’introduzione dell’euro, hanno approvato riforme di sostanza e sono diventati il Paese più virtuoso d’Europa. Lo stesso Paese che dieci anni fa era considerato il “grande malato d’Europa”.
Noi abbiamo avuto le stesse identiche possibilità, ma non lo abbiamo fatto.
Questa è la realtà.
L’unica cosa che conta davvero adesso è guardare avanti.
Il presidente Roosevelt, il 4 marzo del 1933, nel momento in cui la Depressione americana aveva raggiunto il punto più basso, pronunciò un discorso di cui vorrei rileggere con voi un passaggio.
Sono parole che risuonano quanto mai attuali per l’Italia di oggi.
“Ritengo che questo sia il tempo di dire la verità, tutta la verità, con sincerità e coraggio.
Non si può rifuggire, oggi, dall’affrontare onestamente le attuali condizioni del nostro Paese.
Questa grande nazione saprà sopportare ancora, e saprà anche risorgere e prosperare.
Lasciate, dunque, che prima di tutto io esprima la mia ferma convinzione che l’unica cosa che dobbiamo davvero temere è di lasciarci vincere dalla paura – da quella paura senza nome, irragionevole e ingiustificata, che paralizza i movimenti necessari a trasformare una ritirata in un’avanzata.
In tutte le ore oscure della nostra vita nazionale, una leadership basata sulla franchezza e sull’energia ha incontrato la comprensione e il supporto della gente, che sono essenziali per arrivare alla vittoria.
Questi giorni difficili saranno valsi il prezzo di qualsiasi sacrificio sofferto, se ci avranno insegnato che il nostro vero destino non è di sottostare rassegnatamente a tante difficoltà, ma di reagire ad esse per noi stessi e per i nostri simili.
Il nostro primo grande compito è di dare lavoro alla gente.
Non ci sono problemi insolubili, se affrontati con saggezza e coraggio”.

Anche per noi è arrivato il momento della verità e dell’azione.
“Dare lavoro alla gente” deve diventare l’unico obiettivo per chiunque abbia davvero a cuore le sorti di questo Paese.
Ognuno può e deve fare la sua parte.

A cominciare da noi, dal mondo dell’industria e degli affari.
Noi siamo abituati, per natura, ad assumerci i rischi collegati al fare impresa.
E noi oggi dobbiamo avere il coraggio di prenderne uno in più e scommettere sulla ripresa dell’Italia.
Abbiamo bisogno che il sistema finanziario ci segua e ci supporti in questa scommessa.
La Fiat si è assunta la propria parte di rischio e di responsabilità.
Ci stiamo accollando tutti i costi di una realtà operativa in perdita, qual è la nostra rete produttiva italiana.
Stiamo usando la sicurezza finanziaria che ci deriva dalle attività extra europee – specialmente negli Stati Uniti e in Brasile – per sostenere e proteggere la nostra presenza in Italia.

E lo stiamo facendo da quasi quattro anni ormai.
La scelta più facile e immediata, anche quella più razionale dal punto di vista economico, sarebbe quella di chiudere uno o più stabilimenti in Italia.
Ci permetterebbe di contenere le perdite dovute al drammatico crollo della domanda di auto e di risolvere, una volta per tutte, i problemi di sovraccapacità che la Fiat ha in Europa, e di cui soffrono anche tutti gli altri costruttori generalisti.
Questa è la soluzione che alcuni hanno auspicato – specialmente gli analisti finanziari – e molti hanno temuto, per gli effetti sociali che avrebbe provocato.
Abbiamo invece detto, e lo ribadisco anche oggi, che non chiuderemo nessuno stabilimento in Italia.
Siamo diventati un’azienda globale e siamo liberi di compiere le nostre scelte industriali, in modo razionale e per il bene dell’azienda.
Ma per noi, fare automobili non è solo questione di conti e di efficienza.
Fin dall’inizio abbiamo gestito la nostra libertà con coscienza, cercando sempre un punto di equilibrio tra logiche industriali e responsabilità sociale.
Stiamo facendo ricorso alla cassa integrazione per limitare le conseguenze sui nostri lavoratori.
Sappiamo bene che essere in cassa integrazione pesa sulle nostre persone, ma è l’unico strumento per evitare i licenziamenti.
Ci auguriamo che continui a garantire loro un sostegno al reddito, in modo da scongiurare il rischio che il disagio si trasformi in disperazione.

Stiamo usando la forza che questa azienda ha al di fuori dell’Italia per aiutare a ricostruire un ambiente competitivo, moderno e tecnologico.
Come saprete, abbiamo anche scelto di rivedere la nostra strategia in maniera fondamentale, sfruttando il patrimonio storico del nostro alto di gamma, per aprirci la strada ai mercati esteri.
Vogliamo toglierci dalla mischia dei marchi generalisti e andare a competere nella parte alta e meno affollata del mercato.

In questo modo potremo aumentare l’uso della nostra base produttiva in Europa per sviluppare i nostri marchi globali – Alfa Romeo, Maserati e Jeep – e i modelli chiave del marchio Fiat, appartenenti alle famiglie 500 e Panda.
E potremo fare degli stabilimenti italiani una base di produzione dedicata a veicoli destinati ai mercati di tutto il mondo.
Si tratta di una strategia coraggiosa e non priva di rischi.
Ma l’abbiamo scelta per il senso di responsabilità che la Fiat sente verso questo Paese.
L’esecuzione del nostro progetto ci permetterà di ottenere, già nei prossimi 24 mesi, un significativo aumento dell’attività produttiva, fino ad arrivare, nel giro di tre-quattro anni, ad un pieno impiego di tutti i nostri lavoratori.
Ci permetterà, inoltre, di risolvere il nostro problema della sovraccapacità produttiva nel mercato generalista e di raggiungere finalmente il pareggio, anche in Italia ed in Europa.
Il processo di rilancio della nostra rete produttiva italiana è già stato avviato.
A Pomigliano, smentendo ogni pregiudizio sulla capacità di reazione del territorio, abbiamo creato uno stabilimento modello, il migliore d’Europa, come anche i tedeschi ci riconoscono.

Abbiamo investito 800 milioni, e senza chiedere un euro di finanziamenti.
Solo le condizioni del mercato ci hanno impedito finora di far rientrare in fabbrica tutti i lavoratori.
A gennaio abbiamo inaugurato il nuovo stabilimento “Avvocato Giovanni Agnelli” di Grugliasco, su cui abbiamo investito oltre un miliardo di euro, compresi i costi di sviluppo di due nuovi modelli.

L’impianto sta già costruendo la nuova Maserati Quattroporte e la Maserati Ghibli, che sarà lanciata entro l’estate.
Sono, inoltre, in corso gli investimenti – pari ad oltre un miliardo di euro – per adeguare lo stabilimento di Melfi alle nuove produzioni.

Si tratta di due modelli che a partire dal 2014 verranno venduti nei mercati di tutto il mondo:
la Fiat 500X, un’ulteriore evoluzione della famiglia 500;
e una vettura del marchio Jeep, per entrare in un segmento di mercato nel quale oggi non è presente.
E stiamo lavorando silenziosamente, ma con determinazione, per sviluppare il resto dell’offerta di prodotti del nostro alto di gamma, per rilanciare gli altri siti produttivi che abbiamo in Italia.

Siamo disposti ad andare oltre.
Lo stesso impegno che abbiamo preso per i nostri siti siamo disposti a metterlo per avviare un numero limitato di progetti, rivolti soprattutto ai giovani.
Per farlo, bisogna creare quelle condizioni, anche normative, per allentare i vincoli sul mondo del lavoro e non aggravare le imprese di costi strutturali.

Penso, ad esempio, a progetti specifici, a tempo determinato, per dare a tanti ragazzi la possibilità non solo di entrare nel mondo del lavoro, ma di farlo in un ambiente aperto, globale e multiculturale come quello delle nostre aziende oggi.

* * *

Anche il Governo può e deve fare la sua parte.

Le risorse a disposizione sono limitate e non si può chiedere l’impossibile.
Ma chi gestisce l’Italia ha il dovere di alimentare le proprie ambizioni e di confrontarsi con i migliori Paesi del mondo.
Ci si creda oppure no, esistono Paesi che stanno meglio di noi.
Questo deve essere l’obiettivo: arrivare al loro livello nel giro dei prossimi dieci anni.
Non chiediamo e non chiederemo aiuti di Stato.

Ciò di cui le imprese hanno bisogno è di essere supportate nella fase di transizione che ci aspetta.
Abbiamo bisogno delle condizioni perché questo passaggio avvenga nel modo migliore possibile.
Occorre stilare una seria agenda di riforme per modernizzare il Paese. E occorre metterla in pratica.

Smettiamola con la cantilena che sento ripetere in continuazione: “Non si può fare, perché…”.
Non ci vogliono miliardi per fare le cose essenziali.
Basta volerlo.
Come ha detto Machiavelli: “Non c’è niente di più difficile, più incerto o più pericoloso che assumersi la responsabilità di introdurre un nuovo ordine di cose”.

Ma non abbiamo scelta.
Senza il coraggio del cambiamento non si va molto avanti.
Sappiamo che l’agenda dell’Italia è troppo grande, troppo lunga e troppo complicata per fare tutto in una volta sola.
E non sono io la persona che deve indicare le priorità al Governo.
Ma di una cosa sono certo.
Agli italiani stanno a cuore le riforme costituzionali, che permetteranno di dare vita a uno stato più moderno.
Nessuno pensa che non serva lavorare per delineare il futuro assetto istituzionale e politico del nostro Paese.
Sono tutti argomenti molto importanti che devono essere affrontati e risolti.
Ma non credo siano gli argomenti che stanno in cima ai pensieri della gente.
Gli italiani che devono affrontare le difficoltà di tutti i giorni, e ai quali il futuro appare molto incerto, credo aspettino decisioni e leggi che incidono positivamente sulla loro vita quotidiana e che permettono di guardare al futuro con una certa speranza.
E questi argomenti sono certamente quelli di tipo economico e quelli che riguardano il lavoro, soprattutto delle generazioni più giovani.
Quello che posso dire al Governo è: scegliete le cinque cose più importanti, quelle che possono veramente influire sulla vita delle persone; cinque cose che si possono fare e si possono fare ora.
Datevi 90 giorni di tempo per realizzarle e poi passate alle cinque successive.
Posso anche dire quello che le imprese percepiscono come urgente.
Abbiamo bisogno di muoverci senza restrizioni, senza i vincoli imposti da una riforma del lavoro, già in parte abortita, e da un sistema giudiziario lento e inefficiente, con tendenze a volte anti-industriali.
Abbiamo bisogno di velocità e certezze di risposta.
Ci piacerebbe anche vedere comportamenti ed esempi concreti per limitare le spese e gli sprechi, della politica e della pubblica amministrazione.
Altrettanto urgente è usare tutti i futuri risparmi per ridurre un carico fiscale che è diventato ormai insopportabile per i cittadini normali.
Non possiamo continuare a rimandare i problemi all’infinito, in attesa che la soluzione arrivi dall’Europa.

Non succederà mai, a meno che non vogliamo essere commissariati.
La risposta ai problemi dell’Italia è dentro l’Italia, ed è dentro ognuno di noi.

L’obbligo di tirare fuori il Paese dalle secche della recessione e della disoccupazione è un nostro obbligo, un nostro dovere, che ci deve vedere tutti alleati.
La Fiat in Italia ha compiuto scelte importanti, di rottura col passato – e non tutte condivise.

Ma lo abbiamo fatto con l’unico scopo di adeguarci ad un mondo che cambia e di avere gli strumenti necessari per confrontarci, all’interno e all’esterno dell’azienda, in modo più rigoroso, ma anche molto più diretto e trasparente.
Credo che oggi il vero punto di svolta, per il nostro Paese, sia ritrovare uno spirito comune, uno scatto di orgoglio da parte di tutti.
Quello di cui ora c’è bisogno è un grande sforzo collettivo per condividere gli impegni, le responsabilità e i sacrifici e per dare all’Italia la possibilità di andare avanti. Una specie di patto sociale che cancelli le opposizioni e le distinzioni – ideologiche e non – tra le varie fazioni.
Chiamatele il nostro “piano Marshall italiano”, o chiamatelo come volete.
Il punto è che dobbiamo varare un piano di coesione nazionale per la ripresa economica.
Tutti devono partecipare: la politica, i sindacati, le imprese, le università, le associazioni di categoria; tutti quanti, in ogni strato della società.
Tutti dobbiamo lavorare ad un grande progetto di rilancio, verso un obiettivo che non sia l’interesse di una o dell’altra parte, ma quello più alto di ridare fiducia e prospettive all’Italia.
Lo abbiamo già fatto prima.
Nei momenti cruciali della nostra storia, gli italiani hanno saputo dimostrare che cosa questo Paese sa fare, quali energie e capacità è in grado di mettere in moto, quali traguardi sa raggiungere.

Penso alla volontà e alla tenacia dei lavoratori italiani del Dopoguerra, che hanno riscostruito questo Paese dalle ceneri.
Penso al coraggio e al sacrificio dei patrioti italiani che hanno dato vita a questa nazione più di 150 anni fa.
Penso anche a cosa ha rappresentato Firenze, allo straordinario motore di cambiamento e progresso che è partito da qui per dare vita ad una delle più grandi fasi di successo della nostra storia.

Qualunque studente di storia sa che il Rinascimento è stato un punto così alto della nostra civiltà perché ha visto convergere in una sola direzione tutte le forze positive della società.
Si è creato un equilibrio perfetto di tecnologia e di cultura, di arte e di educazione, di forze dinamiche, moderne e intraprendenti. E, soprattutto, ha preso vita la voglia e la capacità di sviluppare le proprie ambizioni.
Lo sappiamo tutti che questo Paese è pieno di risorse preziose, di talento e di creatività.
Non c’è ragione per cui non possiamo creare insieme un’altra ricostruzione, un’altra fase di crescita economica, un altro Rinascimento.
Lo ha detto di recente anche il Capo dello Stato, quando ha parlato dell’impegno a trasmettere piena coscienza “di quel che l’Italia e gli italiani hanno mostrato di essere in periodo cruciali del loro passato” e delle “grandi riserve di risorse umane e morali, d’intelligenza e di lavoro di cui disponiamo”.
Lo ha ripetuto, il giorno del suo insediamento, “sia per sollecitare tutti a parlare il linguaggio della verità – fuori di ogni banale distinzione e disputa tra pessimisti e ottimisti – sia per introdurre il discorso su un insieme di obbiettivi in materia di riforme istituzionali e di proposte per l’avvio di un nuovo sviluppo economico, più equo e sostenibile”.

* * *

In questo quadro, la Fiat sarà la prima a dare il proprio contributo.

E’ più di un secolo che la storia di questa azienda è intrecciata con la storia d’Italia.

La Fiat ha partecipato allo sviluppo industriale di questo Paese, in parte lo ha stimolato. Ne ha accompagnato la crescita economica e sociale, e ne ha favorito il benessere.
E, a sua volta, ne ha avuto in cambio benessere e sviluppo.
Oggi, dopo 114 anni, quello spirito è ancora vivo.
Non possiamo illuderci di ricreare la Fiat del passato – e non lo vogliamo.
Ma intendiamo fare la nostra parte per l’Italia.
Vogliamo contribuire alla costruzione di un domani che sia all’altezza delle nostre aspettative di crescita industriale, sociale e civile.
Perché ci sarà sempre un pezzo di Italia in ogni Fiat che andrà in giro per il mondo, come ci sarà sempre un po’ di Fiat in ognuno di noi.

* * *

Vorrei concludere con un’ultima riflessione, che sintetizza le sfide che abbiamo davanti come aziende e come Paese.
Nell’offrire ognuno il proprio contributo al grande disegno di ricostruzione dell’Italia, la responsabilità che abbiamo è enorme.
Ed è ancora questa città ed uno dei suoi illustri cittadini, di cui quest’anno si celebrano i 500 anni dalla stesura del “Principe”, ad offrirci un’ulteriore riflessione.
In un’altra delle sue opere più note, Machiavelli ci ha lasciato questo spunto:
“Il ritorno al principio è spesso determinato dalla semplice virtù di un uomo. Il suo esempio ha una tale influenza che gli uomini buoni desiderano imitarlo e quelli cattivi si vergognano di condurre una vita contraria al suo esempio”.

Se fra un paio d’anni saremo ancora qui a lamentarci delle inefficienze e dei problemi di competitività del nostro Paese non dovremo che vergognarci di noi stessi.
Tutti noi, tutte le forze sociali, ogni singolo individuo ha la responsabilità e il privilegio di diventare quella persona di virtù.
Il Paese ha bisogno di uomini e donne che sentano il peso della responsabilità di ciò che fanno, che agiscano con decisione e coraggio, che non si tirino indietro quando si tratta di dare il buon esempio.

Sappiamo che c’è un lavoro enorme da fare.
Ma sappiamo anche che saremo solo noi i responsabili delle scelte e delle non-scelte che faremo.
Se falliremo, se perderemo l’occasione che la nostra epoca ci offre, sarà solo perché ci saranno mancati la volontà o il coraggio.
L’augurio che posso fare a tutti noi è di cogliere quest’opportunità storica.
Adesso è il momento di dimostrare che siamo degni della storia che abbiamo alle spalle.
Perché questa è l’Italia che ci piace.
E’ questa l’Italia che piace al mondo.
Grazie a tutti.

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