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Vi spiego il futuro dell’auto in Italia. Parla il “rottamatore” Marchionne

Signore e Signori, buongiorno a tutti.
Vorrei ringraziare in particolare Giovanna Mazzocchi e Carlo Cavicchi per avermi invitato al convegno di oggi, che mi dà l’opportunità di condividere con voi alcune riflessioni, sul futuro dell’auto in Italia e anche sulle prospettive del nostro settore a livello europeo.
Sono arrivato ieri da Detroit – dove come saprete lunedì si è aperto il Salone dell’Auto – e stasera devo ripartire di nuovo per gli Stati Uniti.
Ma, nonostante gli impegni di questa settimana, ci tenevo molto ad essere qui con voi.
Quattroruote non è solo il più autorevole mensile italiano dedicato all’auto. Soprattutto continua a tenere fede all’idea con cui fu fondato da Gianni Mazzocchi 57 anni fa: l’auto come simbolo di libertà e di progresso economico; e come mezzo di evoluzione personale e sociale.
Questi sono elementi di una cultura industriale che è particolarmente preziosa oggi, per l’Italia come per l’Europa.

Le nostre economie e il nostro settore stanno passando momenti difficili, nel mezzo della peggiore crisi dal Dopoguerra.
Ma non sono venuto qui a tracciarvi un quadro fosco né a farvi l’elenco di problemi che conoscete fin troppo bene.
Mentre pensavo a cosa vi avrei detto oggi, c’erano due concetti che mi tornavano in mente: la speranza e l’impegno.
La speranza è qualcosa di cui non possiamo fare a meno per vivere.
L’impegno, invece, è il motore del progresso. L’unico che permette alle nostre aspirazioni di diventare reali.
Questi sono i valori che ci permettono di immaginare ogni volta nuovi inizi e di realizzare cose giudicate impossibili da tanti.
Oggi sono qui a parlarvi di speranza e di impegno.

* * *

Un segnale di speranza, per il nostro settore, è arrivato un paio di mesi fa dalla Commissione Europea.
Più di una volta mi sono trovato a denunciare pubblicamente, anche come presidente dell’Acea, alcune sventurate decisioni – o peggio ancora non-decisioni – prese in sede europea.
L’eccesso di regolamentazione che grava sui costruttori; le crociate irrealistiche sull’idrogeno e sull’elettrico; l’accordo di libero scambio con la Corea del Sud; la scelta di non intervenire a livello comunitario per affrontare il problema della sovraccapacità produttiva… sono solo alcuni esempi di iniziative prive di visione o addirittura dannose per la nostra industria.
Forse dobbiamo dare ragione a Cavicchi, quando a inizio anno ha Twittato: “Stanotte ho sognato che c’era un candidato alle prossime elezioni pronto a fare qualcosa per l’auto. Poi ho capito che avevo mangiato pesante”.
Purtroppo, molto spesso, il mondo politico vede la filiera dell’auto più come un bacino di risorse alle quali attingere in tempi d’emergenza che come un settore strategico, fonte di occupazione e di crescita.
Più come una vacca da mungere che come un patrimonio da valorizzare e rafforzare.
Ma forse è stata proprio la crisi, forzando al limite la tenuta di un settore che conta 12 milioni di occupati in Europa, a far aprire gli occhi.
CARS 2020, il Piano d’azione per l’industria europea dell’auto, adottato a novembre dalla Commissione Europea, è certamente una buona notizia.
Almeno sulla carta, per ora.
Lo è per diversi motivi.
A cominciare dall’approccio con cui finalmente si guarda a questa industria.
Il documento riconosce chiaramente l’importanza strategica del settore auto per la ripresa economica, per generare crescita e occupazione.
Riconosce che si tratta di un tassello fondamentale dell’economia e della società europea, essenziale per garantire una solida base manifatturiera.
Sottolinea la necessità di un impegno attivo dell’Europa par rafforzare la competitività del settore e sostenerlo nel seguire nuove opportunità di crescita nei mercati mondiali.
Si pone l’obiettivo di frenare la tendenza in corso – la progressiva perdita di peso di questa industria in Europa – e di portarlo dall’attuale 16 per cento del PIL al 20 per cento entro il 2020.
Il piano è importante anche perché prende atto che ci troviamo ad una svolta storica e che il modello di business al quale siamo abituati è destinato a cambiare in modo permanente.
Ridurre la dipendenza dal petrolio, adeguare l’attuale capacità produttiva, ricercare maggiori efficienze, adeguarsi ad una pressione competitiva crescente, cercare opportunità nei mercati extra europei…. sono tutti elementi che la Commissione Europea considera basilari per affrontare una nuova “rivoluzione industriale” del nostro settore.
Non è la prima volta che l’Europa si pronuncia su questi temi, ma è certamente la prima volta che lo fa in modo equilibrato, dimostrando di comprendere i tempi e le esigenze dell’auto. Dimostrando, finalmente, realismo e una visione complessiva dei problemi.
Ad esempio, per quanto riguarda lo sviluppo di vetture più ecologiche, non ritroviamo più l’irrazionale spinta verso un’unica tecnologia, idrogeno o elettrico che sia.
C’è invece un approccio bilanciato, che prende in considerazione tutti i carburanti alternativi, sia quelli già disponibili – come il metano e il GPL – sia quelli a medio-lungo termine. E c’è anche la presa di coscienza che i rispettivi benefici vanno valutati considerando l’intero ciclo di vita.
Le “fughe in avanti”, dove si voglia dimostrare di avere in mano la ricetta magica che risolverà una volte per tutte il problema, sono pure illusioni.
E in tempi recenti ne abbiamo viste più di una.
Dieci anni fa è stato raccontato il sogno dell’idrogeno, e il nostro settore veniva accusato di non compiere sforzi a sufficienza nello sviluppo di questa trazione alternativa.
Poi si è scoperto che, oltre ai problemi della durata e dei costi delle fuel cell, avremmo solo spostato il problema: vetture pulitissime, ma ottenute a scapito di enormi quantità di energia e di emissioni inquinanti a causa del processo di produzione dell’idrogeno.
Quando l’idrogeno è passato di moda, è stata la volta dell’elettrico.
Non sto dicendo che l’auto elettrica sia un progetto da non considerare.
In Fiat ci stiamo lavorando seriamente, insieme a Chrysler, che ha sviluppato grandi competenze e una solida esperienza.
A novembre, al Salone di Los Angeles, abbiamo presentato una versione elettrica della 500, che sarà commercializzata nel mercato americano dal secondo trimestre di quest’anno.
Ma è bene sapere che per ogni 500 elettrica venduta perderemo circa 10.000 dollari.
Un affare al limite del masochismo.
E poi sono molto controversi i benefici dei veicoli elettrici per ridurre le emissioni nocive in atmosfera.
Una ricerca svolta dalla Norvegian University of Science and Technology sostiene che le vetture elettriche costituiscono una minaccia ambientale quasi doppia rispetto ai veicoli alimentati a benzina o diesel, in termini di potenziale riscaldamento globale del pianeta.
A questo andrebbero aggiunti gli effetti negativi legati all’uso di materiali tossici per la produzione di batterie e motori elettrici.
Lo studio evidenzia, inoltre, come sia addirittura contro-producente per l’ambiente promuovere l’uso di veicoli elettrici se vengono usate sorgenti fossili per la produzione di elettricità.
Credo che quella dell’elettrico sia un’operazione che va fatta, ma senza imposizioni di legge.
Se si vuole davvero iniziare da subito a ridurre i livelli di emissioni, soprattutto nei centri urbani, è molto più utile sfruttare tutte le tecnologie disponibili, in modo combinato.
Penso sia a quelle tradizionali sia a quelle alternative già disponibili – come il metano, che per la sua origine e le sue qualità è oggi il carburante più pulito disponibile in natura.
Quella del metano, in cui l’Italia detiene un indiscutibile primato, si è rivelata una strategia di successo, anche in un anno nero come il 2012.
Stando ai dati disponibili, riferiti ai primi dieci mesi dell’anno, rispetto ad un mercato europeo che è calato del 7 per cento, i veicoli a metano sono aumentati del 26 per cento.
Ancora più significativo è il risultato ottenuto in Italia.
Mentre la domanda generale è crollata del 20 per cento, la vendita di vetture a metano è salita di oltre il 40 per cento.
Questo rafforza la nostra convinzione del metano come l’unica scelta in grado di garantire da subito effettivi positivi sull’ambiente ed essere, allo stesso tempo, accessibile ai clienti.
Il punto è che per adottare una strategia che sia davvero efficace e utile, occorre partire da un approccio pragmatico, e studiare soluzioni compatibili con le esigenze di equilibrio tra consumi, costi ed efficienza energetica.

* * *

CARS 2020 è apprezzabile anche per altri motivi.
Sui costruttori di auto grava un eccesso di direttive e regolamenti che comporta oneri enormi, perché fa lievitare i costi di produzione, e spesso senza produrre alcun beneficio concreto.
Abbiamo sollevato il problema più di una volta, ma, puntualmente, ogni anno si aggiungono nuove norme.
Il Piano d’azione della Commissione Europea sembra, al contrario, sposare i principi di una “regolamentazione intelligente”, che eviti oneri inutili e crei invece un clima favorevole agli investimenti.
Anche per quanto riguarda le politiche commerciali – se pure non si possono cancellare i danni già fatti – riconosciamo almeno un cambio di rotta.
Nel documento ci si impegna, prima di concludere qualunque accordo di libero scambio, a valutarne l’impatto sulla competitività dell’industria dell’auto.
A leggerlo oggi, suona quasi come un “mea culpa”.
Era il 2009 quando abbiamo iniziato a puntare il dito contro gli ingiusti vantaggi competitivi che l’accordo con la Corea del Sud avrebbe concesso ai costruttori coreani.
Oggi, purtroppo, ne abbiamo l’evidenza.
In un mercato disastroso come quello del 2012, gli unici ad aver aumentato le vendite in Europa sono stati Kia e Hyundai.
E la storia rischia di ripetersi con i negoziati avviati col Giappone.
Come riporta anche Quattroruote, non ci sono motivi per esporre l’industria dell’auto europea ad un altro accordo squilibrato, con uno dei nostri principali concorrenti.
Un accordo che metterebbe a rischio dai 35.000 ai 73.000 posti di lavoro.
Ho sempre sostenuto l’importanza degli accordi che favoriscono le relazioni commerciali.
Sono il primo a schierarmi a favore di un mercato libero e senza barriere.
Ma alla base di tutto ciò deve esserci un principio sacrosanto: la parità di condizioni per i concorrenti.
Sembra che la Commissione Europea abbia finalmente adottato un’ottica simile.

* * *

E’ chiaro, però, che tutte le buone intenzioni contenute in CARS 2020 non possono e non devono rimanere solo propositi sulla carta.
Li valutiamo con favore, purché si traducano in comportamenti coerenti.
Purché alle parole seguano azioni rapide e concrete.
L’industria dell’auto, la nostra economia hanno già scontato troppi anni di inazione e di promesse disattese.
Non possiamo più permettercelo.
Per quanto mi riguarda, credo anche che le Istituzioni europee potrebbero essere molto più autonome ed efficaci nel portare avanti questo Piano d’Azione, se l’Europa stessa avesse più peso rispetto alla somma dei singoli stati.

* * *

Questa è un’epoca difficile: di sfide da affrontare, di prove da superare, di problemi da risolvere.
Ma è anche un’epoca che ci sta offrendo una seconda chance.
Quella di dimostrare che siamo all’altezza della situazione, che possiamo indirizzare le energie migliori della società verso qualcosa di valore.
Questo è il momento della speranza e dell’impegno.
E’ l’occasione che si presenta all’Europa, al nostro Paese, alla nostra industria e a tante singole imprese per ripensare se stesse e creare le basi per un futuro più solido e sostenibile.

Si tratta di una sfida che si è aperta anche per la Fiat.
Come saprete, il 30 ottobre abbiamo illustrato agli analisti finanziari internazionali e ai sindacati italiani un piano coraggioso; un piano che io stesso ho definito “non per i deboli di cuore”.
E’ una strategia per contrastare gli effetti che la crisi in Europa sta avendo sulla Fiat, e allo stesso tempo avviare nuove produzioni nei nostri stabilimenti dell’auto in Italia.
La situazione attuale non è più sostenibile a lungo.
Le attività collegate ai marchi generalisti in Europa hanno comportato perdite gravissime per Fiat negli ultimi tre anni.
Finora abbiamo usato la sicurezza finanziaria che ci deriva dalle attività extra europee – specialmente negli Stati Uniti e in Brasile – per sostenere e proteggere la nostra presenza in Europa.
Ma è evidente che non può durare all’infinito, se non vogliamo minare in modo irreparabile la solidità che abbiamo costruito in tutti questi anni e pregiudicare il futuro dell’integrazione tra Fiat e Chrysler.
Di fronte ad una situazione del genere, le alternative erano soltanto due.
La prima era quella di rimanere totalmente concentrati sulle vetture di massa ed eliminare parte della capacità produttiva in eccesso, chiudendo almeno uno stabilimento in Italia.
La seconda era quella di ripensare in parte il nostro business e sfruttare il patrimonio storico dei nostri marchi premium per bilanciare la nostra offerta di prodotto, puntando sui segmenti più alti e meno affollati. E così facendo, aprirci la strada ai mercati esteri.
La prima è l’alternativa facile, razionale ed economica. E’ la soluzione che alcuni hanno auspicato – specialmente gli analisti finanziari – e molti hanno temuto, per gli effetti sociali che avrebbe provocato.
La seconda, invece, è la scelta coraggiosa, e non priva di rischi.
Ma, soprattutto, è una scelta che esula da qualunque logica di interesse e che risponde invece al senso di responsabilità che la Fiat sente verso questo Paese.
Abbiamo già dimostrato più di una volta, in passato, che i momenti di crisi possono diventare occasioni da sfruttare. Occasioni per fare qualcosa di nuovo, per gettare le basi di un futuro differente.
E’ nelle difficoltà che occorre avere visione, riprendere in mano la situazione e ripensare, a volte, anche se stessi.
Per questo abbiamo scelto la strada del coraggio.
Qualunque investimento fatto oggi in un contesto europeo, avendo come unico mercato di sbocco un’area in profonda crisi economica, non avrebbe senso.
Anzi, sarebbe una strategia suicida.
Avrebbe come unico effetto quello di comportare ulteriori perdite per l’azienda e ulteriori disagi sui lavoratori.
La ragione per cui noi oggi possiamo permetterci di intraprendere questa strada è perché Fiat e Chrysler insieme sono una realtà industriale profondamente diversa rispetto a tre anni fa.
La Fiat si è aperta all’esterno, in maniera fondamentale e irreversibile.
I nostri mercati di riferimento non sono più soltanto quelli tradizionali – italiano ed europeo – ma sono diventati soprattutto quelli extra-europei.
Abbiamo intenzione di toglierci dalla mischia dei marchi generalisti ed andare a competere nella parte alta e meno affollata del mercato.
E’ una scommessa che facciamo sapendo che ne abbiamo la forza e che possiamo contare su alcuni vantaggi concreti.
Primo: il fatto che possiamo mettere in gioco tutte le nostre competenze ed eredità migliori, perché abbiamo in casa il prestigio e la qualità di chi, come la Ferrari, ha definito l’alto di gamma in tutto il mondo.
Secondo: il fatto che l’insieme di Fiat e Chrysler ci ha dato la capacità di sviluppare negli ultimi tre anni architetture e motori che saranno all’avanguardia per il segmento premium.
E terzo: il fatto che la Fiat oggi, grazie a Chrysler, ha una presenza globale, che ci dà accesso tanto ai mercati del Nord America quanto a quelli asiatici, e ci offre la possibilità di sfruttare parte della nostra capacità produttiva per le esportazioni.
Possiamo e dobbiamo fare degli stabilimenti italiani una base di produzione dedicata a veicoli destinati ai mercati di tutto il mondo.
Considerando queste premesse, abbiamo programmato di portare in produzione negli impianti italiani 17 nuovi modelli e 7 aggiornamenti di prodotto da qui al 2016.
Questo ci permetterà di ottenere, già nei prossimi 24 mesi, un significativo aumento dell’attività produttiva, fino ad arrivare, nel giro di tre-quattro anni, ad un pieno impiego di tutti i nostri lavoratori.
Ci permetterà, inoltre, di risolvere il nostro problema della sovraccapacità produttiva nel mercato generalista e di raggiungere finalmente il pareggio, anche in Italia ed in Europa.
Il primo passo concreto lo abbiamo compiuto il 20 dicembre, annunciando un investimento di oltre un miliardo di euro per lo stabilimento di Melfi.
Nell’impianto produrremmo due nuovi modelli, a partire dal 2014: la nuova 500X e un utility vehicle della Jeep, che verrà venduto nei mercati di tutto il mondo.
Il prossimo annuncio arriverà a fine mese, quando illustreremo nel dettaglio i progetti per lo stabilimento di Grugliasco.
Il ciclo che abbiamo aperto rappresenta il nostro impegno per restare in questo Paese e tornare ad essere profittevoli.
Si tratta di un impegno enorme, che ci sentiamo di prendere prima di tutto per onorare la responsabilità sociale che è collegata al nostro modo di intendere il business.
Lo facciamo anche in relazione al contesto economico attuale e agli sforzi che sono stati avviati affinché l’Italia possa tornare ad essere competitiva e sanare quei deficit che oggi tengono lontani gli investitori esteri e costringono tante aziende ad andarsene.
Non ci siamo mai tirati indietro in passato e non intendiamo farlo ora, che è in corso un processo di risanamento del Paese.
Se saremo capaci di fare bene il nostro mestiere, potremo contribuire a rivalutare l’immagine dell’Italia come paese tecnologicamente avanzato, nel quale è ancora possibile fare industria.

Forse per ragioni storiche – o forse perché siamo la più grande impresa industriale privata – la Fiat è considerata ancora da molti lo specchio del Paese.
La verità è che negli ultimi otto anni e mezzo abbiamo creato dalle potenziali ceneri di un costruttore italiano un gruppo automobilistico con un orizzonte globale.
Questa non è più la Fiat che gli italiani ricordano.
A volte succede che quando si vede un figlio crescere, si abbia difficoltà ad accettarne il cambiamento, a vederlo nel ruolo di persona matura.
Così talvolta è anche nel rapporto tra l’Italia verso la Fiat.
Ma se questa azienda si è trasformata ed è cresciuta nel mondo, è stato solo per porre fine ad un isolamento che ne avrebbe pregiudicato il futuro.
Lo abbiamo fatto per diventare più forti, più capaci, più consapevoli delle nostre possibilità.
E questa non può essere una colpa.
E’ più di un secolo che la storia della Fiat è intrecciata con la storia d’Italia.
La Fiat ha partecipato allo sviluppo industriale di questo Paese, in parte lo ha stimolato.
Ne ha accompagnato la crescita economica e sociale, e ne ha favorito il benessere. E, a sua volta, ne ha avuto in cambio benessere e sviluppo.
Oggi, dopo 114 anni, quello spirito è ancora vivo.
Siamo pronti a confermare il nostro impegno.
La Fiat oggi è un’azienda totalmente diversa da quella di una volta, è aperta e globale, lontana dall’idea che tanta parte dell’opinione pubblica può ancora avere.
Non possiamo illuderci di ricreare la Fiat del passato – e non lo vogliamo.
Ma intendiamo fare la nostra parte per l’Italia.
Vogliamo contribuire alla costruzione di un domani che sia all’altezza delle nostre aspettative di crescita industriale, sociale e civile.
Perché ci sarà sempre un pezzo di Italia in ogni Fiat che andrà in giro per il mondo, come ci sarà sempre un po’ di Fiat in ognuno di noi.

[Video “La Nostra Vita” – 60’’]

* * *

Vorrei concludere ora con un’ultima riflessione, che sintetizza le sfide che abbiamo davanti come aziende, come settore e come Paese.
Si dice che ci sono tre tipi di persone.
Ci sono quelli che creano il loro futuro.
Ci sono quelli che stanno seduti a guardare cosa porta il futuro.
E poi ci sono quelli che si chiedono cosa diavolo sia successo.
Se fra 3 o 4 anni saremo ancora qui a lamentarci delle inefficienze del nostro settore e delle perdite accumulate; se saremo ancora qui a lamentarci dei problemi di competitività del nostro Paese, non dovremo che vergognarci di noi stessi.
Tutti noi, oggi, abbiamo la responsabilità e il privilegio di costruire il futuro che vogliamo lasciare alle prossime generazioni.
Sappiamo che c’è un lavoro enorme da fare.
Ma nulla di ciò che vale davvero la pena è mai facile.
Sappiamo anche che saremo solo noi i responsabili delle scelte e delle non-scelte che faremo.
Se falliremo, se perderemo l’occasione che la nostra epoca ci offre, sarà solo perché ci saranno mancati la volontà o il coraggio.
L’augurio che posso fare a tutti noi è di cogliere quest’opportunità storica.
Adesso è il momento di dimostrare che siamo degni della storia che abbiamo alle spalle.
Questa è l’Italia che ci piace.
Questa è l’Italia che piace al mondo.
Grazie a tutti.

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