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Verità e bugie sulla riforma del lavoro in Spagna

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In Spagna il calo dell’occupazione è proseguito ininterrotto dal III trimestre del 2008, e nel trimestre corrispondente del 2013 i posti di lavoro persi erano più di 3,5 milioni. Il calo è maturato soprattutto nelle fasce di età più giovani: circa 2,2 milioni di persone tra
i 25 e i 39 anni ha perso il posto di lavoro durante questo periodo, cui si aggiungono 1,2 milioni di giovani tra i 15 e i 24 anni. Per contro, il numero dei 40-59enni espulsi dal mercato del lavoro è stato pari solo a 138mila unità, mentre sono stati solo 34mila quelli di età compresa tra i 60 e i 64 anni che hanno perso il lavoro.

Il calo dell’occupazione spagnola ha riguardato soprattutto lavoratori a bassa qualifica professionale: nel corso del periodo in esame il 72% circa dei posti di lavoro persi riguardava persone con un’istruzione primaria o secondaria inferiore (poco più di 2,5 milioni di unità), mentre il 29,6% riguardava persone con un’istruzione secondaria superiore (poco più di un milione). Al contrario, tra i laureati l’occupazione risulta aumentata di 52mila unità.

L’immagine che si ricava guardando ai dati del mercato del lavoro spagnolo precedente la crisi è quella di una realtà molto instabile, caratterizzata, come ha di recente ribadito l’Ocse,1 da una marcata dualità. All’inizio della crisi il 31,7% degli occupati spagnoli aveva un contratto a tempo determinato, contro valori compresi tra il 13 e il 15% per gli altri principali paesi europei. La percentuale spagnola è molto diminuita durante gli anni della crisi, per la massiccia espulsione dal mercato del lavoro proprio dei lavoratori a tempo determinato, ma rimane comunque tra le più alte dell’area Ocse (23% contro una media del 13%).

La dualità emerge anche dai dati relativi alle assunzioni: nel 2007 l’88,3% dei nuovi contratti di lavoro era a tempo determinato, percentuale arrivata al 92,3% nel 2011 (anno nel quale il corrispondente valore per Italia e Francia era 78%) per poi declinare solo lievemente in seguito; peraltro, nel paese solo una percentuale molto bassa (3%) dei contratti a tempo determinato viene convertito in contratto permanente. Secondo una stima dell’ILO2 circa un terzo della forza lavoro spagnola che si è trovata ad avere
un contratto di lavoro a tempo determinato in una qualche fase della propria vita lavorativa ha trascorso un periodo di circa 6-8 anni tra lavori a tempo determinato e disoccupazione. Inoltre, anche coloro i quali ottengono la trasformazione del contratto a tempo determinato in uno permanente si trovano comunque in una posizione peggiore degli altri.

La necessità di superare in parte questo dualismo, in un periodo di forte difficoltà per l’economia, ha spinto il Governo spagnolo ad approvare una profonda riforma del mercato del lavoro. La legge, varata a febbraio 2012, ha passato l’approvazione parlamentare senza sostanziali modifiche a luglio dello stesso anno.

Una delle principali innovazioni introdotte dalla nuova legge è il maggiore peso dato ai contratti aziendali rispetto a quelli settoriali o regionali. Le imprese in Spagna possono ora rinunciare al contratto collettivo e adottare misure che rendano più flessibile l’occupazione; possono ad esempio introdurre unilateralmente modifiche alle condizioni di lavoro (inclusi i salari, il numero di ore lavorate e l’organizzazione del lavoro) ogni volta che ragioni economiche tecniche o organizzative lo richiedano.

Secondo la nuova normativa, inoltre, i contratti collettivi scaduti possono essere prolungati al massimo per un anno. Tra le altre condizioni la nuova legge introduce la possibilità di licenziamento qualora l’impresa fronteggi tre trimestri consecutivi di calo nei ricavi o nel reddito ordinario (ordinary income). L’impresa in questione non deve neanche dimostrare che il licenziamento sia essenziale per la futura profittabilità. Il compenso monetario a copertura di un licenziamento illegittimo (senza giusta causa) è stato inoltre ridotto a 33 giorni di salario per ogni anno di anzianità (in precedenza erano 45), fino a un massimo di 24 mesi (dai precedenti 42).

Relativamente ai licenziamenti collettivi, la riforma spagnola ha eliminato il requisito dell’autorizzazione amministrativa, mentre ha mantenuto l’obbligo dei negoziati preliminari “in buona fede” con i sindacati, al pari di quanto accade nella maggior parte dei paesi Ocse. Nel caso in cui ad essere coinvolte siano imprese con più di 50 addetti è previsto inoltre che queste si impegnino in programmi speciali di riqualificazione e ricollocazione dei lavoratori licenziati. Con la nuova normativa viene inoltre ampliato il numero dei casi in cui le imprese debbano pagare una tassa nel caso in cui tra i licenziati vi siano lavoratori con oltre 50 anni.

Con il decreto di marzo 2013, il novero delle imprese obbligate al pagamento di un tale contributo è stato ampliato a comprendere tutte quelle che (date alcune circostanze) hanno registrato profitti positivi nell’anno precedente il licenziamento collettivo. In alcuni casi l’obbligo si estende anche alle imprese che realizzano profitti nei due-quattro anni successivi i licenziamenti; in tal modo si è voluto legare il contributo alla performance dell’impresa stessa.

La riforma ha inoltre posto limiti precisi e stringenti ai casi di licenziamento collettivo che possono essere dichiarati nulli dai tribunali con conseguente reintegro dei lavoratori nel loro precedente ruolo (e pagamento degli arretrati). La stessa legge limita la possibilità che un singolo lavoratore coinvolto in un licenziamento collettivo possa ricusare gli accordi.

La legge dedica anche alcuni interventi specifici alle piccole imprese: a quelle con meno di 50 addetti che non hanno fatto ricorso a licenziamenti senza giusta causa o collettivi nei sei mesi precedenti la legge accorda la possibilità di stipulare contratti full time a tempo indeterminato che beneficiano di incentivi e rimborsi fiscali.
Ai lavoratori licenziati con accordo dalle imprese con meno di 25 addetti viene esteso il sussidio pari al salario di 8 giorni per ogni anno di servizio; tale sussidio viene erogato dal FOGASA, un apposito fondo a garanzia dei salari.

Tra le altre misure adottate per il complesso delle imprese vi sono inoltre il limite, fissato a due anni, alla durata dei contratti a tempo determinato, e la maggiore flessibilità nei contratti part-time e in quello di apprendistato (contrato de formación y aprendizaje). La riforma autorizza infine agenzie private di collocamento ad operare insieme a quelle pubbliche nella ricollocazione dei lavoratori disoccupati.
Una valutazione dell’impatto della riforma sul mercato del lavoro spagnolo è ancora prematura. La sua complessità, e soprattutto il fatto di comprendere una serie di misure riferite a specifici segmenti di impresa o tipologie di lavoratori, rende difficile qualunque confronto con un benchmark conosciuto.

La riforma viene però in via preliminare valutata positivamente dagli organismi internazionali (soprattutto l’Ocse), che mettono in evidenza soprattutto la flessione del costo del lavoro registrata nel Paese negli ultimi trimestri. Occorre tuttavia ricordare che tale flessione (per ammissione degli stessi analisti dell’Ocse) potrebbe essere stata determinata in gran parte dalla fase negativa del ciclo che ha caratterizzato in modo rilevante l’economia spagnola dopo il varo della legge.

Tra i fattori positivi si rileva anche un lieve aumento del numero dei contratti permanenti (25mila in più al mese secondo alcune stime), soprattutto tra le imprese piccole e medie. La quota dei contratti permanenti sulle nuove assunzioni sarebbe così salita di 3 punti percentuali. L’Ocse ritiene inoltre che la legge necessiti di alcune correzioni, ad esempio limitare ulteriormente la discrezionalità dei tribunali di dichiarare nulli i licenziamenti, ed eliminare la norma che prevede una sorta di penale per le imprese che licenziano e realizzano profitti positivi negli anni successivi.

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