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Far fuori Assad: obiettivo comune di opposizione e lealisti?

Le trattative “Ginevra 2” riprese in questi giorni, potrebbero già aver raggiunto il punto più alto – per quanto possa sembrare poco consistente, ma sembra impossibile sperare in molto meglio. Racconta Reuters che l’opposizione siriana seduta al tavolo ha proposto un piano post-bellico; piano che prevede una fase di transizione politica, a cui dovrebbe prendere parte sia il governo, sia i vari gruppi etnici presenti nel Paese (per «cercare la protezione e la partecipazione» di tutti, si legge), in una sorta di Autorità di transizione che avrà la funzione di sorvegliare il cessate il fuoco e coadiuvare le Nazioni Unite nell’espulsione dei combattenti stranieri.

Sul documento, non viene mai citato il nome dell’attuale presidente Bashar al-Assad: il capo negoziatore delle opposizioni, Hadi al-Bahra, ha spiegato che si è trattato di una scelta voluta. Da un lato per attenersi a quanto riportato in un testo precedentemente concordato con le potenze mondiali, già nel 2012; dall’altro è stata una sottolineatura politica, importante per dividere le sorti del futuro della Siria dall’uomo che ne ha determinato il triste presente.

L’isolamento di Assad, rischia di non venire però soltanto dalle opposizioni. In un post scritto sul suo blog – e ripreso dal Foglio con la traduzione di Sarah Marion Tuggey – il siriano di Homs Aboud Dandachi (attualmente fuggito a Istanbul a causa della guerra), racconta di come in realtà il presidente rischi di rimanere solo anche tra i suoi. Il titolo del pezzo è emblematico: “One Day, it Will be an Alawite Who Finally Kills Assad”, un giorno Assad sarà ucciso da un alawita (il filone sciita a cui appartiene lui e la sua famiglia).

Già, perché Assad rischia di finire schiavo della sua stessa retorica: narrativa imposta per portare il conflitto dalla sua parte, costruendo squadracce – le “shabiha” – para militari composte solo da alawiti, per lottare contro i “takfiris“, l’opposizione, gli altri (appoggiati, per altro, da sionisti-salafiti-wahabiti-pro Nato).

E potrebbero essere proprio le sue shabiha (e qualche parte dei mukhabarat meno leali/sti) a tradirlo: la narrativa di Assad ha rappresentato per lungo tempo la guerra, come una lotta per la sopravvivenza etnica (degli alawiti) contro tutti i selvaggi nemici takfiri; ma anni di guerra – per di più sostenuta da potenze come Russia e Iran e da corpi armati come quelli di Hezbollah – senza ottenere la supremazia sulle forze ribelli, logorano. Il rischio, secondo Dandachi, è che i suoi si stanchino, esausti dal conflitto, e facciano fuori il presidente (anche dal punto di vista fisico) per sostituirlo con qualcuno che avrebbe meno scrupoli – per quanto pochi Assad ne abbia avuti – ad usare per esempio le armi chimiche che Assad sta consegnando, contro quei takfiri.

Gli alawiti assadisti non hanno la minima intenzione di condividere nessun processo di transizione del potere con gli altri gruppi: vogliono la supremazia totale e schiacciante, davanti alla paura dell’essere sopraffatti, spinta da anni di esasperazione indotta proprio da quella narrativa di Assad.

Racconta Dandachi, che quando una delle squadracce shabiha – le cui azioni sono molto più violente e spregiudicate di quelle dell’esercito – fece irruzione in casa di un suo parente, il tipo mostrò subito la foto del figlio al fianco del presidente, il Dottore, in persona, per dimostrare la propria lealtà al governo: la risposta fu «Kess emak ‘ala em el doktor Bashar!» – un qualcosa di più greve e volgare, di un “vaffanculo” rivolto al presidente.

Assad dunque, potrebbe avere un ulteriore affaticamento nel tenere la situazione sotto controllo, spinto da un lato dalle forze internazionale, dall’altro dai ribelli e adesso da dietro da alcuni dei suoi: finendo sopraffatto dalla sua stessa retorica.

Ma per contrastare l’indebolimento del regime, il presidente ha in tasca ancora la linea ufficiale governativa, l’esercito, e soprattutto le carte diplomatiche. I colloqui procedono al rallentatore e permettono ad Assad di giocare diverse carte che altrimenti sarebbero state più complicate.

Nei suoi articoli da Homs, il reporter Sam Dagher del Wall Street Journal, ha raccontato più volte come l’evacuazione degli ostaggi ridotti alla fame, in una città sotto assedio da mesi, da parte dei Caschi Blu, sia stata segnata da alcuni passaggi controversi. E questo al di là del lancio di colpi di mortaio contro i convogli Onu, iniziativa spregiudicata firmata appunto dagli shabiha – a conferma di una quasi assoluta indipendenza dalle linee del governo, che aveva concordato l’ingresso degli aiuti. Durante le evacuazioni, infatti, i miliziani hanno rastrellato gli sfollati trattenendo e arrestando uomini in età da guerra (tra i 15 e i 64 anni) che accompagnavano le proprie famiglie fuori dall’area assediata: operazione a cui le forze delle Nazioni Unite non si sono potute opporre, anzi, si è trattato quasi di una contropartita; ma soprattutto, operazione che sarebbe stata scomoda da portare avanti senza la loro uscita allo scoperto. In questo Assad non si è, ovviamente, mostrato contrario: anzi, ha sfruttato il passaggio diplomatico del via libera ai convogli umanitari, per indebolire i ribelli e soprattutto acquietare le volontà degli shabiha, che da tempo combattono nell’area, sostituendosi in forze e impegno all’esercito regolare attivo su altri fronti.

Allo stesso tempo, come faceva notare giorni fa Daniele Raineri (il miglior giornalista italiano per trattare di certe questioni) sul Foglio, “el Doktor” ha sfruttato le concessioni diplomatiche sulle armi chimiche, per spostare la gran parte del suo arsenale nelle controllate località costiere, serrando ulteriormente i ranghi. Operazione necessaria per il volgere sfavorevole degli eventi in molte delle aree dove si trovavano le basi, ma condotta sotto la protezione delle forze internazionali, al riparo da possibili attacchi (per esempio con raid aerei israeliani) da parte di chi quelle armi di distruzione di massa avrebbe voluto eliminarle anche senza passaggi diplomatici.

Ulteriore passaggio, questo del logoramento dei lealisti governativi, che dimostra che in Siria niente è facile, niente è lineare, e più che altro, niente è come appare.

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