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Intanto in Africa dilaga il terrorismo (islamico)

È arrivata venerdì scorso la nota con cui il ministero degli Esteri italiano si è unito a quelli di Olanda, Svizzera e Germania, nello sconsigliare viaggi in Egitto. Lo “sconsiglio”, così definito nel gergo degli operatori turistici, riguarda anche le mete balneari come Sharm el-Sheik, fin qui considerate sempre sicure (come una sorta di “territorio internazionale”), anche durante le sanguinose proteste di piazza degli anni passati.

Il gruppo più attivo nel paese è Ansar beyt el-Makdes (ABM), che ha avviato la nuova ondata di attentati alla fine di gennaio – più o meno da quando il presidente ad interim Adly Mansour ha annunciato la fine dello stato di polizia che perdurava dalla deposizione di Morsi del luglio scorso. Operante dal 2011, ABM ha negli ultimi tempi fatto segnare un’escalation di attacchi, non solo colpendo posti di blocchi della polizia (24 dicembre 2013, 16 morti di cui 14 agenti; 23 gennaio, 5 morti), ma anche lanciando razzi contro la cittadina turistica israeliana di Eilat (20 gennaio, diversi danni e feriti, e poi il 31 gennaio, ma il razzo è stato intercettato dal sistema Iron Dome); ha poi rivendicato via Twitter la responsabilità degli attentati che hanno colpito Il Cairo il 24 e il 25 gennaio (8 morti in totale), abbattuto un elicottero militare egiziano (25 gennaio, se n’era già parlato) e assassinato l’alto funzionario del ministero dell’Interno gen. Mohamed al-Sayed (28 gennaio), fino ad arrivare all’attentato al bus turistico a Taba (16 febbraio, 4 morti) che ha fatto scattare l’allarme. Anche perché l’obiettivo del gruppo guidato da Ibrahim Mohamed Freg è chiaro: colpire l’Egitto cominciando dal turismo, per questo le attività si sono concentrate nel Sinai, cuore del settore (era stato fissato anche un ultimatum per il 20 febbraio, invitando tutti i turisti a lasciare il Paese). Il jihadismo salafita di ABM sembrerebbe essere finanziato dai Fratelli Musulmani, ma secondo molti ci sarebbe un legame con al-Qaeda dietro alle ultime operazioni.

Scendendo più a sud, le notizie si fanno addirittura più fresche, e raccontano dell’intensa attività che il gruppo dei Boko Haram (definizione con cui sono conosciuti i membri del Jamāʿat Ahl al-Sunna li-daʿwa wa l-Jihād, gruppo islamista attivo in Nigeria fin dal 2001) che ha portato il governo federale a diffondere una nota con cui definiva quella del nord-est del paese una «situazione di guerra». Tra le giornate di sabato e domenica, hanno ucciso un centinaio di persone (quasi esclusivamente civili), provocando il ferimento di altrettanti; prima in un attentato (due autobombe deflagrate a distanza di pochi minuti l’una dall’altra) a Maiduguri – cittadina al confine nordorientale, capitale dello stato federale del Borno in realtà a maggioranza musulmana, in cui Ustaz Yusuf aveva dato i natali all’organizzazione – e poi nella vicina Mainok, dove i miliziani sono scesi da pick-up armati di mitragliatrici e lanciarazzi sparando alla cieca e bruciando negozi e abitazioni. Soltanto l’ultimo in ordine cronologico degli assalti: il mese di febbraio si sono contati 300 morti (l’attacco che ha raso al suolo il villaggio di Izghe ha ucciso oltre 100 persone, civili di ogni età; 29 ragazzi sono stai uccisi in un altro attacco ad un college). Il Paese (che è il principale produttore di petrolio nel continente) sta vivendo una fase di forte crescita economica, seppur tra le immense incoerenze delle disparità sociali. La lotta contro la cultura occidentale (da qui deriva la definizione in lingua hausa di Boko Haram), è diventata man mano lotta contro i cristiani – obiettivo dell’organizzazione è istituire uno stato islamico guidato dalla sharia – e si sta trasformando in guerra anche verso i musulmani moderati (gli attacchi a Maiduguri lo testimonierebbero). Il gruppo è attualmente guidato da Abubakr Shekau; le fonti di finanziamento non sono certe: i fondi sembrerebbero arrivare sia attraverso rapine, sia dall’estorsione di pagamenti per permettere l’attraversamento di territori controllati (pratica diffusa in Africa; il sospetto pagamento di dazi ai ribelli congolesi dell’M23 aveva portato critiche a Heineken). Ma secondo molti il gruppo è legato ad al-Qaeda, probabilmente attraverso l’Aqim (Al-Qaeda nel Maghreb Islamico). Dai dati riportati da alcune organizzazioni umanitarie, l’intensificarsi degli attacchi dei Boko Haram, avrebbe prodotto già 300 mila profughi, per lo più diretti verso il Niger e soprattutto Camerun. Tanto che sembra che l’organizzazione, sebbene già presente nei due Stati confinanti, si starebbe diffondendo con maggior vigore i questi territori.

Ma non è solo l’attualità a preoccupare il continente africano: nel 2013 si sono contati più di due mila episodi di terrorismo (fonte database del Dipartimento per la Sicurezza americano). In Somalia il gruppo al-Qaeda linked di al-Shabaab è sempre attivissimo  e avrebbe stretto collegamenti con l’Alleanza delle forze democratiche ugandesi e con l’Armata nazionale di liberazione dell’Uganda, formazioni in lotta contro l’Esercito di resistenza del Signore (di ispirazione cristiano integralista). Lo scorso anno l’Aqim in Mali (guidato dal veterano afghano di origini algerine Mokhtar Belmokhtar, detto “il guercio”, in un attacco preparato per mesi) è andato addirittura vicino a prendere il controllo dello stato, se non fosse arrivato l’intervento dell’esercito francese bloccare a la rivolta. Il gruppo starebbe anche spostando le sue azioni, prima strettamente legate al Maghreb, lungo il deserto del Sahel e verso il Corno d’Africa (si sarebbe fuso con il Mujao, Movimento per l’unicità della guerra sante nell’Africa occidentale), area in cui passa il grosso del commercio di droga (eroina dall’Asia, cocaina dal Sud America), utile per aumentare i finanziamenti – il capo del Mujao, Sultan Ould Badi, sarebbe noto nel mondo del narcotraffico).

Non è un segreto invece la presenza di al-Qaeda in Sudan, zona storicamente utilizzata per l’addestramento delle milizie e dove è servito l’intervento della comunità internazionale per esortare il regime locale all’espulsione – attuata in termini molto soft, a dire il vero. Lo stesso dicasi della presenza di Ansar al-Sharia in Tunisia. Tornando alla cronaca di questi giorni, invece, c’è da registrare l’intensificarsi delle attività in Libia. Agli inizi di ottobre era stato catturato da un’operazione della Delta Force (in collaborazione con la Cia) Abu Anas al-Liby, ritenuto tra i responsabili degli attentati alle ambasciate americane in Africa del 1998, ma non è bastato. Si susseguono da diverse settimane misteriosi omicidi, cadaveri ritrovati in zone fuori dalle città, che stanno mettendo in allerta le forze operanti nel Paese. Già, perché secondo quanto rivelato ai primi di febbraio dal quotidiano francese Le Figaro, la Delta Force americana sarebbe impegnatissima – in appoggio alle truppe libiche – nel sud della Libia. Operazioni da commandos, travestimenti da nomadi locali, intelligence militare supportata anche da droni, con l’obiettivo di individuare i “nemici” per poi lasciare il lavoro sporco alle forze libiche o alle milizie lealista. Il confine con la Tunisia e la porzione meridionale del paese, sono “terra di nessuno”, senza legge, dove traffici di ogni genere (e dunque anche spostamenti di terroristi) trovano ambiente ideale. Le Special Forces americane, tra cui reparti rientrati dall’Afghanistan, si sarebbero addestrate al combattimento anche attraverso l’aiuto di soldati nordafricani. In questo anche la base di Sigonella svolgerebbe un ruolo centrale, di supporto logistico e strategico, nonché di primo aiuto in caso di estrema emergenza: qui si inquadrerebbe l’arrivo di pochi giorni fa in Sicilia, dell’VIII battaglione Marines di stanza in Nord Carolina.

 

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