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Che ne sarà della crisi in Crimea

La crisi in Crimea, seguita alle proteste ucraine – quelle che sono state ribattezzate col nome di Euromaidan – ha compiuto la prima settimana. La questione ha assunto da subito un dimensione globale, impegnando molte diplomazie internazionali: lo stesso è avvenuto sui giornali, dove le notizie si rincorrono sulle prime pagine da giorni. Il motivo, essenzialmente, è legato al fatto che Putin con le sue azioni spregiudicate (e arroganti e forse in parte sconsiderate) ha raggiunto – probabilmente oltrepassato a dire il vero –  i limiti di trattati e accordi internazionali, più o meno scritti, invadendo un Paese sovrano. Ma non è tutto così semplice.

Qualche ora fa, la Commissione Europea ha approvato un pacchetto di aiuti economici da offrire alle traballanti casse ucraine: sarebbero previsti 11 miliardi di dollari per due anni. Sempre oggi, per la prima volta dall’inizio della crisi, si incontreranno faccia a faccia il Segretario di Stato americano John Kerry e il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov. L’incontro – che avverrà quasi in contemporanea a quello tra la Nato e i rappresentati russi – sarà molto importante per capire se la Russia ha intenzione di avviare una qualche via di trattativa. Il capo della diplomazia inglese William Hauge, dopo aver incontrato Kerry in mattinata a Parigi, ha commentato a proposito: «Non sono ottimista sul risultato dell’incontro, ma di certo è giusto tentare tutte le possibilità diplomatiche per fermare la crisi».

Ieri Putin – e Lavrov – hanno praticamente negato la presenza di soldati russi in Ucraina. Kerry, che in quelle ore era in visita a Kiev tra le barricate di piazza Maidan, alla giornalista di NBC Andrea Mitchell che gli aveva segnalato la dichiarazione del presidente russo, aveva risposto meravigliato: «Ma davvero ha detto così?!». E infatti c’è da meravigliarsi: sono svariate le prove che soldati russi – militari o mercenari – siano presenti nella penisola ucraina. Al di là delle divise senza logo – e dei volontari arruolati nelle forze di autodifesa – sarebbe inequivocabile la presenza di mezzi dell’esercito di Mosca, come segnalato da diversi giornalisti: su Twitter, per esempio, il giornalista BBC Abdujalil Abdurasulov ha fatto notare che alcuni automezzi portavano sulla targa il numero “21”, che indica la provenienza dalla regione della Chuvashiya, fascia di territorio della Russia europea compresa tra le città di Novgorod e Kazan). Altri hanno segnalato che alcune delle persone armate presenti in Crimea, non sembrano avere forniture dilettantistiche come quelle di “autodifesa”: si è parlato di unità speciali, di contractors, anche del Gru i servizi segreti militari russi (l’intelligence più grande e misteriosa del Paese). Di sicuro si sono visti in giro uomini armati, in borghese, con in mano i lanciagranate GM-94, che attualmente risulta in dotazione soltanto agli Spetsnaz, le forze speciali russe.

Al di là dell’assodata presenza dei militari russi, va però detto che non ci sono stati scontri armati: per questo, diciamo che tecnicamente non si può parlare di guerra. Gli unici colpi d’arma da fuoco, sono quelli che i soldati russi hanno sparato in aria ieri, quando (il video ha fatto il giro del mondo), si sono visti arrivare davanti un gruppo di ucraini che si stavano arrendendo. Christopher Miller del Kyev Post, ha raccontato che i militari russi hanno gridato «non avvicinatevi, abbiamo ordine di spararvi». Vicenda significativa, che testimonia che le forze russe hanno ordine di non attaccare per primi ma di reagire a eventuali attacchi. Circostanza che porta a pensare, che l’unico motivo per cui la guerra non sia ancora scoppiata, è che il governo ucraino ha dato ordine ai suoi uomini di non reagire alle provocazioni – il video girato all’interno dell’Alto comando navale ucraino di Sebastopoli dal reporter di Vice Simon Ostrovsky, racconta che addirittura i militari, sebbene circondati dalle forze (filo)russe in una specie di assedio che dura da giorni, hanno messo tutte le armi in una stanza sottochiave, per evitare di reagire.

Fino a che punto il neonato governo di Kiev accetterà questa occupazione silenziosa e strisciante, non è chiaro. A quanta pare, a detta di diversi analisti, quella che in gergo viene definita “red line” è segnata dal fatto che le truppe russe non passino nel resto del territorio. L'”invasione” come molti l’hanno definita (l’ex Sec of State Hillary Clinton, in un incontro privato in California avrebbe paragonato le azioni di Putin a quelle di Hitler negli anni Trenta), infatti è fin qui limitata alla penisola meridionale: nel resto dell’Ucraina sono comunque attive diverse manifestazioni, più o meno spontanee, di manifestanti filo-russi che hanno occupato edifici e aree istituzionali, soprattutto nelle città orientali. A Donetsk la polizia ucraina ha ripreso il controllo della sede del governo locale, solo in mattinata.

In Crimea la situazione è più particolare: le truppe russe sono state accolte con calore da buona parte della popolazione, che li ha acclamate, scattando foto insieme. La Crimea, come si sa, è un territorio dove i filo-russi sono la maggioranza, ma non sono soli: non va sottovalutato infatti, che secondo gli ultimi censimenti, buona parte di questi si era considerato ucraino (circa il 24%). C’è poi la minoranza tatara, che rappresenta il 12 per cento della popolazione: sono musulmani, e già storicamente hanno subito ingiustizie e deportazioni (verso l’Uzbekistan), dunque sono tra i più preoccupati del futuro, e per questo si schierano dalla parte di Kiev.

Ampliare le operazioni nel resto del Paese, sarebbe per Mosca molto più complicato. Innanzitutto per questioni geografiche. La Crimea è dal punto di vista territoriale facilmente isolabile: è collegata al resto dell’Ucraina dall’istmo di Perekop (appena 5,7 chilometri) a nord, mentre invece lo Stretto di Kerch (altri 5 km di mare, che a quanto pare siano controllati dalle navi russe) la collega alla Russia meridionale chiudendo il Mar di Azov. In tali circostanze, tagliare le vie di comunicazione e controllare tutti gli accessi, è relativamente semplice.

Ma invadere il resto del Paese, sarebbe complicato anche dal punto di vista economico. Lo scossone subito dalla Borsa di Mosca il primo giorno di riapertura delle trattative, ha messo in guardia Putin – sarebbero stati bruciati oltre 10 miliardi di dollari, per tenere a galla il rublo – portando scompiglio tra i principali titoli del Paese: le due banche più grandi, Sherbank e VTB hanno perso rispettivamente il 14 e il 17 per cento, un altro 14 lo ha perso Gazprom.

Le casse di Mosca non sono rosee, e l’organizzazione delle Olimpiadi di Sochi le ha messe a dura prova: molti analisti concordano con il pensare, che non solo la Russia non potrebbe permettersi di portare avanti una guerra in Ucraina, ma avrebbe difficoltà anche a sostenere un intervento lampo in Crimea.

Le motivazioni di Putin, però vanno spesso oltre la realtà – parafrasando le parole che il New York Times ha attribuito ad Angela Merkel in una telefonata con Obama, quando parlo di un Putin ormai fuori controllo. Non c’entra la necessità di un affaccio sul Mar Nero, circostanza che geograficamente non mancherebbe e che comunque non è mai stata in discussione: la base di Sebastopoli è in affitto ai russi per altri svariati anni. Non c’entrano nemmeno gli interessi economici (qui, per esempio, i cinesi avrebbero più voce in capitolo), anche perché chi ha da guadagnarci eventualmente è l’Ucraina – nemmeno dal punto di vista delle vie del gas. Non c’entra, ed è forse la più ipocrita delle voci, la necessità di difendere il popolo russo, dalle rivolte neonaziste – ormai anche i più pigri, hanno capito che la componente di estrema destra, seppur presente, non è l’unica dietro agli Euromaidan. O meglio, sono tutte circostanze che hanno un proprio peso, nella somma totale, ma molto relativo. Più importante è valutare due questioni. La prima è la necessità ineluttabile di tenere le manifestazioni lontane dalla Russia: il governo di Mosca non eccelle per democraticità, bollori interni e proteste di vario genere infiammano già le cronache (e le reazioni non sono certo state di apertura, vedere Pussy Riot o il blogger attivista Navalny, per dirne un paio). Il soffio di un primavera balcanica, che prende aria anche dalle proteste per ore rientrate a Sarajevo e dintorni, può essere pericoloso: non a caso, prima che militarmente, le rivolte di Kiev sono state combattute con la propaganda (i richiami ai neonazisti, rientrano in questa specie di armi). In secondo luogo, ci sono quelle considerazioni che Michele Pierri riportava in un articolo su Formiche proprio oggi, e che escono anche dallo scambio di missive tra Sergio Romano e Antonio Padoa Schioppa. Se si ribalta il lato di osservazione, l’occhio di Putin e della Russia, vede avvicinarsi sempre di più l’Occidente e la Nato: il patto di non superare i confini della Germania dell’Est, nel corso del tempo è stato sonoramente stracciato. Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Lituania, Estonia, Croazia, Albania, sono entrate nell’orbita dell’Alleanza Atlantica nel corso degli anni, a questi vanno aggiunte le nazioni del “Partnership for peace” (tra cui la stessa Ucraina, che hanno i propri eserciti collegati a quelli Nato) e gli accordi di libertà di uso dello spazio aereo per le operazioni in Afghanistan concessi dai paesi ex-Urss dell’Asia centrale.

Se si guarda sotto questo aspetto la vicenda, la Russia si trova a tutti gli effetti privata di quelle aree considerate storicamente cuscinetto – per tenere a debita distanza l’Occidente. In quest’ottica, la Nato è praticamente nel cortile di casa di Mosca. Sindrome dell’accerchiamento a parte, la circostanza per un leader che mira a ricostruire la “Grande Russia” non è di certo piacevole: Putin abbina a questo un desiderio di riaffermare la potenza di Mosca sul palcoscenico internazionale. E per certi versi ci sta riuscendo. E, in più, le sanzioni – che per altro ancora non sono state diffuse, e che il Dipartimento di Stato sta costruendo in un contesto delicato, rischiando di mettere in pericolo anche i propri interessi – non sono il problema: la reazione dell’UE, nemmeno. Mosca è diventata forte, Putin è forte, e forse – anche leggendo il contesto globale – può valer la pena di aver calcato la mano.

Il problema adesso sarà come uscirne. La pista dell'”operazione umanitaria” di cui ha parlato martedì non è credibile – difendere i russi dai nazisti, è stato più o meno il mood di sottofondo – così come sembra poco credibile la necessità di far fronte alla richiesta di Yanucovich – considerato da Mosca ancora il presidente dell’Ucraina, perché eletto dal popolo – lo è ancora meno. Segnali di apertura sono arrivati: e non si tratta del ritiro delle truppe nelle zone orientali, come qualcuno aveva detto – quello era già previsto dal piano di esercitazioni avviate venerdì della scorsa settimana. È possibile che Putin attenderà le elezioni: sia quelle per aumentare l’autonomia in Crimea (previste per fine marzo, sui quali estremi sta già lavorando un gruppo di lavoro costituito dal nuovo Parlamento di Kiev), sia quelle più importanti, le presidenziali, che si terranno il 25 maggio. Ha già fatto sapere che riconoscerà il presidente eletto in quell’occasione, ma allo stesso tempo ha detto che intanto riaprirà le relazioni tra il suo governo e quello ucraino; in più oggi ha permesso agli osservatori Osce – Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione (OSCE, organizzazione internazionale per la promozione della pace, del dialogo politico, della giustizia e della cooperazione in Europa)  – di entrare in Crimea.

A questo punto comunque, la Crimea ormai è persa. Nessuno, né la Nato, né l’Europa, né gli Stati Uniti, hanno intenzione di avviare un’azione militare contro la Russia. Saranno i mercati a decidere la fine della vicenda, magari aiutati dalle attese sanzioni? Forse, anche se in questi ultimi due giorni sembrano risalire. Comunque anche in questo caso non è detto che Putin abbia da rimetterci: molte nazioni europee, tra cui anche l’Italia, hanno relazioni economiche piuttosto avviate con la Russia, sicché è lecito pensare che questi Stati operino in modo tale da non essere gravati direttamente da un crollo dell’economia di Mosca.

Da questa prova di forza, Putin potrebbe in definitiva uscire come uscì dalla vicenda in Ossetia nel 2008: quando mando le sue truppe a “difendere” l’Ossetia del sud dalla Georgia, non subì grosse ripercussioni dall’Occidente, anzi, molti dei rapporti commerciali con la Russia negli anni che sono seguiti, si sono consolidati.

Ampliando la situazione, si possono anche trovare paragrafi che aumentano la complicazione della situazione.  A rischio infatti, non c’è solo la questione ucraina: in gioco ci sono due tavoli molti importanti, che portano il nome di Siria e Iran. Sulla guerra siriana, il ruolo di Mosca è centrale: le trattative per il disarmo chimico sono state intavolate da Putin, e il rischio è che Assad – che si è dimostrato abbastanza restio nel rispettare il patto e i tempi stabiliti (attualmente sarebbe arrivato nelle mani dell’Opcw meno del 20 per cento dell’arsenale, nonostante le sollecitazioni di accelerare le operazioni) – sfrutti lo spostamento dell’attenzione internazionale e le divisioni tra le parti, per non rispettare gli accordi. Arrivano oggi notizie su un nuovo piano proprio in questi giorni, ma non c’è molto da fidarsi. Sull’Iran, poi: sebbene il ruolo della Russia sia leggermente più marginale, come si potrebbe andare avanti con i negoziati – che a giugno entreranno nella fase definitiva – se seduti al tavolo si troveranno nazioni divise su un’altra importante questione internazionale? Lo scenario vedrebbe infatti quattro paesi del “5+1” (Francia, Stati Uniti, Germania,  Regno Unito) da un lato, e uno, la Russia, dall’altro: con quale credibilità potrebbero essere portate avanti le trattative?

Riallacciare i rapporti per giocare ancora sullo stesso tavolo sarà il vero problema, quando finirà la cronaca.

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