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Storia, motivi e possibili soluzioni alla crisi in Ucraina

È fin troppo facile ironizzare sulla debolezza di Obama e sull’impotenza di un’Europa divisa di fronte a una Russia determinata e vincente. È già successo; basta ricordare le battute di Mussolini sugli inglesi con l’ombrello e sappiamo come andò a finire. Altrettanto facile è invocare paralleli con le grandi crisi del secolo scorso: 1914, 1938, 1948. Tutto ciò non è privo di fondamento, ma c’è un fattore nuovo da non sottovalutare: questa è la prima grande crisi dell’era della globalizzazione.

LA MISSIONE DI PUTIN
Anche se alcuni fantasmi possono tornare ad assillarci, nulla è più veramente come prima. Per capire se Putin è veramente vincente, dobbiamo prima chiederci chi è e qual è il suo obiettivo. Non è Hitler e tantomeno Guglielmo II; la Russia di oggi non ha niente a che fare con la Germania del secolo scorso. Abbiamo invece a che fare con un autocrate modernizzatore nella tradizione di alcuni Zar e, come loro, ha disperato bisogno dell’Occidente per portare a termine il suo disegno. Per capire Putin, bisogna anche tenere presente che l’Occidente e la Russia danno due letture molto diverse della fine della guerra fredda. Noi ci riteniamo, non ha torto, vincitori. I russi obiettano che

LA LEZIONE SOVIETICA
L’Unione Sovietica è implosa sotto il peso delle sue debolezze, e che l’Occidente ne ha solo approfittato per umiliarli; non ci riconoscono gli allori della vittoria e di conseguenza ci negano il diritto di dettare le regole della pace. Della politica estera di Putin sono state fatte diverse letture non necessariamente incompatibili. La prima dice semplicemente che la Russia gioca abilmente di rimessa e sfrutta, come in Siria, gli errori dell’Occidente per ritornare nel gioco delle grandi potenze. Questa interpretazione è corretta, ma non definisce ancora una strategia; farsi riconoscere un ruolo non vuol dire nulla se non si sa cosa se ne vuole fare. La seconda lettura ricongiunge Putin agli Zar che si ponevano come difensori degli slavi ortodossi oppressi dall’impero ottomano; nel suo caso, le minoranze russofone nei pasi limitrofi. Sarebbe un interesse legittimo, se il confine fra la solidarietà etnica e linguistica e il pretesto per l’aggressione non fosse in realtà molto labile come ci insegnano le vicende che portarono alla seconda guerra mondiale. La terza interpretazione parla invece di una strategia difensiva: evitare l’accerchiamento. Approfittando della transizione, abbiamo spinto le frontiere dell’UE e della Nato fino ai confini dell’ex Unione Sovietica. Molti a Mosca sono convinti (e non si può negare che gliene abbiamo dato motivo) che sia nostra intenzione fare lo stesso con la Georgia e l’Ucraina; forse domani con le repubbliche dell’Asia centrale.

IL POSSESSO DI UCRAINA
Se tutto si limitasse a questo, trovare un accordo non sarebbe difficile. Però c’è una quarta interpretazione, in un certo senso speculare a quella precedente, secondo cui il vero disegno di Putin è di ricostituire un rapporto di protettorato con tutti i paesi che facevano parte dell’Unione Sovietica. Da questo punto di vista, il “possesso” dell’Ucraina è essenziale; senza di essa rimarrebbe solo la Bielorussia e anche la presa, già non agevole, sulle repubbliche dell’Asia centrale sarebbe molto fragile. La reazione rabbiosa e violenta agli avvenimenti dell’ultimo mese, molto diversi da quelli che avevano condotto all’invasione della Georgia, sembra avvalorare questa interpretazione. Se così stanno le cose e contrariamente alla tesi dominante sui media, Putin si avvia perdere la partita.

IL FUTURO DELL’UCRAINA
Per capire meglio, dobbiamo porci due domande: che futuro vogliamo noi per l’Ucraina e quali carte abbiamo in mano. I recenti avvenimenti dimostrano che la Russia non è in grado, salvo ricorrere a un’occupazione militare permanente, a controllare il paese nella sua interezza; come diceva Talleyrand, “con le baionette si possono fare molto cose tranne sedercisi sopra”. Due secoli fa le grandi potenze avrebbero negoziato senza riserve la spartizione. La soluzione potrebbe sembrare attraente per risolvere il problema della Crimea, ma è difficilmente praticabile: renderebbe più difficile la convivenza pacifica nel resto del paese e solleverebbe il problema della minoranza tartara (un altro fantasma del passato). Del resto il mondo è pieno di frontiere artificiali o contestate; non sono solo l’eredità dell’epoca coloniale, ma esistono anche in Europa, nella stessa Russia e in Cina.

LA SOLUZIONE FINLANDESE
La comunità internazionale ha un forte interesse collettivo a non aprire questo vaso di Pandora. La separazione della Cecoslovacchia fu consensuale, ma le ferite aperte con il crollo della ex Iugoslavia (Bosnia, Kosovo) sanguinano ancora; per non parlare del Sudan. Fino alla fine della seconda guerra mondiale le grandi potenze riunivano Congressi in cui si spartivano paesi e ridisegnavano frontiere; oggi ciò non è più possibile. Il disegno di inglobare l’Ucraina nell’Occidente, sarebbe altrettanto velleitario e impraticabile. Molti (Kissinger, Brzezinski) parlano di una soluzione “finlandese”. Il parallelo è suggestivo e, se indica una situazione di neutralità, probabilmente sensato. Tuttavia bisogna essere coscienti delle profonde differenze fra i due casi. La geopolitica obbligava la Finlandia a un complesso equilibrismo, ma era pur sempre un paese di solide tradizioni democratiche, economicamente avanzato, socialmente coeso e culturalmente integrato con la Scandinavia. L’Ucraina è un paese recente, nella storia spesso diviso fra imperi stranieri, privo di tradizioni democratiche, economicamente arretrato e con profonde divisioni etniche e linguistiche; per ogni manifestante che agita la bandiera europea, ce n’è un altro che preferirebbe quella nazista e un terzo che invece predilige quella russa. Gli oligarchi ucraini non sono meglio di quelli russi. La stabilizzazione dell’Ucraina necessiterà quindi una collaborazione, anche economica, fra Occidente e Russia, una presa in considerazione dei legittimi interessi russi (che nel caso della Crimea sono anche strategici) e una congiunta capacità di esercitare una pressione moderatrice sulle varie fazioni. In tutti i casi, Putin dovrebbe rinunciare al disegno imperiale.

LE CARTE IN MANO
Ora, l’ultima domanda: quali carte abbiamo in mano? A prima vista, non molte. L’opzione militare ci è preclusa. Sul piano economico, dipendiamo dal gas russo per un terzo dei nostri bisogni e molte imprese occidentali (soprattutto europee) hanno corposi interessi in Russia. Come sempre, sembriamo divisi e incerti. Ciò spiega la riluttanza degli europei ad avviarsi frettolosamente sulla strada delle ritorsioni, ma anche lo sconcerto di un’opinione pubblica abituata a pretendere “tutto e subito”. Tuttavia se si adotta una “vista più lunga”, le cose non stanno necessariamente così. Il rischio che noi corriamo se la crisi si aggrava è immediato e riguarda importanti ma specifici interessi economici. Quello che corre la Russia è strategico e investe l’avvenire del paese. Helmuth Schmidt usava descrivere l’Unione Sovietica come un “Gabon con l’arma atomica”. Oggi aggiungeremmo un riferimento al gas e al petrolio. Il mercato mondiale dell’energia sta cambiando e non a favore dei tradizionali produttori d’idrocarburi, Russia compresa; il pivot to Asia a volte minacciato, non è molto credibile e comunque richiederebbe tempo e risorse. Soprattutto, senza un continuo apporto di tecnologia occidentale il sogno di modernizzare la Russia è destinato a restare tale. Infine troppi russi, e non solo oligarchi, sono ormai abituati a godere nelle città europee dei piaceri della vita e della protezione dei loro investimenti. Questa nuova borghesia russa, classe del cui sostegno Putin ha assoluto bisogno, è la stessa che alimenta la retorica nazionalista; va educata a capire il rischio che corre. È possibile che i nazionalisti a Mosca stentino a capirlo, ma la globalizzazione non gioca a loro favore. Gli effetti della crisi sulla quotazione del rublo e della borsa di Mosca si sono già visti. Infine, gli europei sono meno divisi di quanto si dice e meno distanti dall’America di quanto si crede. È d’altro canto possibile che Putin non riesca a interpretare correttamente la prudenza dell’Europa e, trascinato della sua opinione pubblica nazionalista, si spinga fino a un punto di non ritorno. Certo, come ci insegna il 1914, errori di calcolo, fanatismo e stupidità umana possono condurre alla catastrofe. A volte le grandi potenze dichiarano di voler proteggere gruppi o nazioni, ma ne sono in realtà prigioniere. Tuttavia il parallelo si ferma qui; a causa della globalizzazione, le carte sono distribuite in modo molto più complesso. Le sanzioni che sono allo studio delle cancellerie occidentali non sono un tutto unico, ma una panoplia di misure, ciascuna indirizzata a specifici interessi e che possono fare molto male minimizzando gli effetti di ritorno. Bisogna, mantenendo i nervi saldi, farlo capire anche alla nostra opinione pubblica. Il giusto equilibrio fra prudenza e fermezza è tanto più necessario poiché la prossima crisi dell’era della globalizzazione potrebbe avvenire nel mar della Cina e sarebbe molto più grave.

Riccardo Perissich è stato direttore generale della Commissione europea, autore di L’Unione europea, una storia non ufficiale” (Longanesi, 2008) ed è vice presidente esecutivo del Consiglio Italia-Usa.

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