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Vi spiego perché la guerra agli F-35 è demagogica e populista. Parla il generale Camporini

L’ipotesi di un ulteriore taglio degli F-35, evocata implicitamente nei giorni scorsi dal ministro della Difesa Roberta Pinotti e ora sempre più suffragata dal presidente del Consiglio Matteo Renzi, sembra concretizzarsi. Il governo, scrive oggi il Corriere della Sera, intenderebbe dimezzare il numero dei caccia di Lockheed Martin: non più 12 ma 6 miliardi di euro da spendere nell’arco di 12 anni, non più 90 ma 45 aerei, con un risparmio previsto di mezzo miliardo l’anno.

Un piano molto vicino, se non identico, a quello proposto dal senatore Gian Piero Scanu e dal deputato Carlo Galli, entrambi del Pd, orientati a proporre il dimezzamento del budget italiano destinato al Jsf.

Sono molte, però, secondo gli esperti, le variabili da tenere in considerazione a fronte di una riduzione della partecipazione italiana al programma d’arma.

A cominciare dal ruolo delle aziende italiane coinvolte, ma anche del peso geopolitico dell’Italia, come spiega il generale Vincenzo Camporini (nella foto), già capo di Stato maggiore della Difesa e oggi vicepresidente dell’Istituto Affari Internazionali.

Generale, perché si pensa nuovamente di tagliare il programma F-35?
I motivi sono ideologici, più che economici. Tanto è vero che sono in molti a sostenere che dovremmo acquistare Eurofighter e non F-35. A loro dico che: a) sono due velivoli con caratteristiche diverse, non intercambiabili, il primo serve a difendersi, il secondo ad attaccare; b) Gli F-35 costano, a inizio programma, molto meno che gli Eurofighter al termine della produzione e hanno anche minori costi operativi per ore di volo; c) È vero che gli Eurofighter sono prodotti da un consorzio di quattro Paesi tra i quali c’è anche l’Italia con una quota del 21%. Proprio questo significa che se oggi ne ordinassimo un quantitativo spendendo ad esempio 100 – e gli altri Stati del consorzio non facessero lo stesso in proporzione -, noi avremmo sì un guadagno di 21, ma il restante 79 andrebbe ad altri Paesi. Con gli F-35 invece si è sul mercato in modo aperto, per un numero di commesse che potrebbe essere potenzialmente estesissimo. Non mi stupirei di scoprire che alla fine del programma Jsf, facendo i conti, avremmo avuto lavoro per una cifra superiore a quella spesa per acquistare i nostri velivoli.

Perché a suo parere sono così importanti?
Al di là dell’aspetto economico e del coinvolgimento delle nostre aziende, che pure è importante ricordare, ne abbiamo un bisogno operativo. Ora per soddisfare le necessità delle nostre Forze Armate abbiamo tre velivoli che vanno verso l’obsolescenza. Li sostituiremo con un velivolo solo, anche se in due varianti. Questo comporta un buon risparmio e ci consentirebbe di essere ancora protagonisti sui teatri dove il nostro impegno o la nostra presenza sono stati e sono importanti, e a volte oserei dire vitali per i nostri interessi, penso a Kosovo, Afghanistan, ma anche Libia. Abbiamo poi obblighi nei confronti dei nostri partner e alleati, ad esempio nell’ambito della Nato, ma non solo.

I detrattori del programma sottolineano che, a prescindere del velivolo, la spesa sia sproporzionata per il nostro Paese.
Io sposo quanto detto in questi giorni dal generale Dino Tricarico, che ha spiegato che, al momento, non c’è nessuna esigenza contrattuale di dichiarare il numero totale di F-35 di cui vogliamo dotarci. Possiamo ordinarli di anno in anno secondo necessità operative e possibilità di spesa. Dirlo ora è poco lungimirante, perché si indebolisce la posizione delle nostre aziende coinvolte nel programma.

Come pensa debba comportarsi la politica davanti a queste pressioni?
Io auspico che mondo politico capisca che difendere in modo adeguato un Paese e le sue prerogative, i suoi interessi commerciali e di sicurezza necessità meno scossoni. Mi rendo conto che in questo momento, dal punto di vista demagogico e populistico, faccia molta presa annunciare che si tagli a destra e a manca, ma così facendo si ottiene l’effetto contrario, ovvero quello di indebolire l’Italia, la sua industria e le sue capacità tecnologiche. Vorrei ricordare che la prime voci nell’export italiano sono la meccanica di precisione e i robot. E che ad esempio il 50 per cento della Stazione spaziale internazionale è stata costruita in Italia. Eccellenze e numeri da salvaguardare.

In che modo?
Credo che la stesura di un Libro Bianco della Difesa possa essere un ottimo modo per stabilire in modo chiaro, condiviso e univoco quale debba essere il ruolo politico dell’Italia. Solo così potremmo disegnare lo strumento militare corrispondente alle esigenze del Paese ed evitare che venga stravolto a ogni cambio di governo. Su questo punto di vista è essenziale un ruolo della politica, non bastano le relazioni delle Forze Armate. Solo la politica può fare sintesi e dare una visione omnicomprensiva, che sembra proprio quella che oggi manca.

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