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Siria, la telefonata fra leader ribelli in lotta

Quando Daniele Raineri ne parlò, in Italia gli si diede poca importanza: mancavano dettagli è vero, ma mancava soprattutto la capacità di capire che quella telefonata avvenuta una notte di metà febbraio (intorno al 13), tra uno dei comandanti più forti dell’Isis, Abu Ayman al Iraqi, e un suo omologo dell’Sfr (Syria Revolutionaries’ Front), Mohammed Zaatar, potesse rappresentare un affresco di come – e per cosa – il conflitto siriano si sta combattendo.

Fatto sta che adesso che BuzzFeed ha pubblicato in un articolo di Mike Giglio i contenuti di quella conversazione, ci si può tornare sopra e leggere, anche attraverso le parole dei due leader combattenti, alcuni aspetti fondamentali del conflitto. In parte si sanno già, in parte sembrano essere una conferma – se ce ne fosse davvero bisogno – e in parte servono a mettere ancora a tacere un certo modo, completamente fuori focus, di raccontare la guerra in Siria.

Perché in quella chiacchierata tra due comandanti delle forze di opposizioni ad Assad, non c’è stato niente – o quasi – di amichevole. L’Isis (Stato Islamico d’Iraq e Sham, Siria) combatte una guerra più o meno parallela, una guerra dove l’Islam conta più del popolo siriano – per stessa ammissione di Abu Ayman al Iraqi – e i motivi di questa guerra, sono scritti chiari nel nome, così come i campi di battaglia. L’impegno in Siria è relativamente recente – l’avvio delle operazioni nelle aree del nord, risale all’aprile 2013 – e relativamente intenso: le attività si concentrano storicamente in Iraq, dove negli ultimi mesi hanno avuto un’escalation. Un «contropotere», come lo ha definito lo stesso Raineri (il giornalista italiano, in forza al Foglio, è in assoluto il più ferrato su argomenti di questo genere). Una forza che combatte il potere formale iracheno, guerra che ha prodotto mille morti a gennaio, milletrecento a febbraio, milleseicento a marzo – primi in questa classifica tremenda, seguiti solo dai Boko Haram in Nigeria. Non c’entra al-Qaeda: c’entrava, anche se tra incomprensioni e tensioni, fino ai primi di febbraio, poi (era il 2) arrivò il comunicato ufficiale – se n’era parlato ai tempi – con cui la Guida suprema Ayman al-Zawahiri scaricava definitivamente il gruppo: troppo violento, poco allineato alle direttive centrali, rischiava di gettare in pessima luce al-Qaeda intenta in un’operazione di maquillage globale. Stessa ideologia di fondo, stesse tattiche di guerra, ma la scissione è ormai profondissima: ora l’Isis considera l’erede di Bin Laden un apostata.

Dall’altro lato della cornetta, un uomo che alla guida della sua brigata, chiamata i “Lupi della Valle”, combatte l’esercito di Assad fin dall’inizio – coalizzato il dicembre scorso con altri 14 gruppi islamisti nel Srf. E proprio su questo vertono parti importanti della conversazione: dura, a tratti poco schietta, minacciosa, piena di insulti, accuse e discussioni religiose. Zaatar accusa Abu Ayman di non aver a cuore il popolo siriano, di torture verso i colleghi combattenti e verso i civili dei territori conquistati, di aver ucciso alcuni dei suoi uomini, dell’uso dei kamikaze che producono vittime incontrollabili, addirittura arriva a indicarlo come una sorta di mukhabarat (i servizi segreti), che opera contro i musulmani «in nome dell’Islam». Abu Ayman risponde su tutto, accusando il collega – che in quell’occasione chiamava da Antakya, cittadina turca a pochi chilometri dal confine – di aver scelto la parte sbagliata del conflitto, del rischio che l’appoggio dell’Occidente possa finire come in Iraq, dove le forze americane avevano sostenuto una rivolta guidata dai sunniti contro al-Qaeda durante l’occupazione, aprendo la strada, poi, per l’elezione di un primo ministro sciita – «Loro [l’Occidente] useranno te, e ti uniranno con l’esercito di Bashar, in un governo ad interim, promettendo seggi in parlamento, e cose del genere» dice Ayman.

Secondo Charles Lister analista del Brookings Doha Center, il fatto che Abu Ayman al-Iraqi abbia accettato di parlare al telefono con un altro leader delle forze ribelli, è già singolare di per sé. Per certi aspetti ha dimostrato debolezza: di solito l’Isis non parla, agisce, e duramente. Ma in quei giorni lo Stato Islamico era in parte isolato – isolamento legato anche dalla scissione da al-Qaeda, ma soprattutto allo scarso feedback incontrato tra la popolazione siriana (a differenza delle esultanze degli iracheni, al passaggio dei convogli del gruppo). Il mese scorso l’Isis s’è ritirato da Latakia – città alawita, dove però al-Iraqi è stato proclamato Emiro dai suoi – e da altre città: ma la strategia non è di indebolimento, anzi. L’Isis ha scelto di rafforzarsi, preferendo il completo controllo in un minor numero di città, piuttosto di quello parziale in aree più ampie di territorio.

In Siria l’Isis è una realtà forte, indipendente, irrobustita anche dalle continue immissioni di combattenti stranieri: realtà che continua a combattere secondo le proprie visioni, e al di là di fasi della battaglia, la scelta strategica di rafforzarsi in alcune posizioni, lasciandone indietro altre, corrisponde ad una volontà di orientarsi ad una lunga lotta contro tutti quelli che si mettono sulla propria strada. E in questo, le parole conclusive della conversazione, sono chiare; dice al-Iraqi: «You wil kill us and we will kill you», «This is the right decision» risponde Zaatar.

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