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Perché la Borsa italiana non spicca in Europa

A lanciare l’allarme è stata Serena Torielli. Ma la storia dell’Italia di Borsa ai margini della finanza è antica. È la storia di un Paese con poca attitudine per il mercato dei capitali e che la crisi ha spinto sempre più verso la periferia. A causa innanzitutto della composizione del listino, dove le banche pesano per un terzo e un altro 40% è rappresentato sostanzialmente da Eni ed Enel. E all’industria manifatturiera che rappresenta lo scheletro del tessuto produttivo domestico restano le briciole.

Proprio il forte squilibrio del listino ha fatto sì che Piazza Affari, la settima economia del mondo, dal 2006 sia stata una delle cinque peggiori Borse del pianeta in termini di performance, perdendo, fino a fine 2013 il 150% in meno rispetto all’Msci World. Per poi riprendere quota negli ultimi mesi e fare meglio delle omologhe europee, mostrando di amplificare, nel bene e nel male, i movimenti dei mercati.

ITALIA, PERIFERIA DELLA FINANZA

Nel frattempo il valore di Piazza Affari è passato da 779 miliardi a circa 447. Certamente la crisi, con due recessioni e il crollo di fiducia verso la credibilità di un Paese, nonché la già citata preponderanza degli istituti di credito sul Ftse/Mib, ha colpito duramente. Ma è innegabile che Piazza Affari soffra di un grave ritardo strutturale: innanzitutto sono meno di 300 le società quotate, contro le 670 di Francoforte o le 980 di Parigi. La capitalizzazione che vale il 29% del Pil, in Spagna dove le quotate sono 200 vale la metà della ricchezza del Paese. Poi ci sono momenti di gloria, come la quotazione di Moncler che lo scorso dicembre ha fatto numeri da capogiro catalizzando l’attenzione del mondo intero sullo Stivale.

PAROLA ALLA PROF BOCCONIANA

“La storia che racconta Moncler – dice Manuela Geranio, professoressa di economia degli intermediari finanziari alla Bocconi – conferma che quando c’è qualcosa di buono il mercato risponde. Ma sono casi isolati e non ne basta uno all’anno: anche perché il confronto è globale e le altre Piazze, quasi tutte, corrono più veloce della nostra”. Secondo Geranio, se sul Ftse/Mib ci fossero mille quotate, l’Italia potrebbe giovare di “un Pil aggiuntivo annuo dello 0,9%. Ovvero, la crescita reale della ricchezza ammonterebbe all’1,5% annuo, contro una media registrata, negli ultimi dieci anni, dello 0,1%. Per non dire del tasso di disoccupazione che sarebbe ridotto del 6,9%”. Numeri impressionanti che derivano dall’osservazione delle migliori performance delle aziende che scelgono di quotarsi, il cui fatturato cresce in media del 10%, mentre il numero dei dipendenti è aumentato di quasi il 5%, contro una media nazionale dell’occupazione dello 0,6%.

LE RAGIONI DI UN RITARDO

E allora cosa manca? Paradossalmente, negli ultimi anni di totale chiusura dei cordoni del credito da parte delle banche si sarebbe dovuto assistere a un boom di quotazioni. Invece le Ipo si sono praticamente fermate dal 2008. Segnali di ripresa iniziano ora a intravedersi: dopo un ultimo trimestre 2013 con il botto grazie a Moncler, da inizio 2014 sono cinque le società arrivate su Aim e ora sono attese Anima holding su Mta e Agronomia, un’altra piccola che ha scelto il listino alternativo. Ma è sufficiente? “Piazza Affari potrebbe diventare più europea in termini di dimensione – afferma Gabriele Roghi, responsabile della consulenza agli investimenti di Invest Banca – se decidessero di fare l’Ipo alcune tra le grandi aziende del Paese che tolgono una grande fetta di potenziale capitalizzazione al nostro listino: Ferrero, Barilla, Poste Italiane, Armani, grande distribuzione (Esselunga, Coop, Conad). A causa della gestione familiare e verticistica nei primi casi o per la peculiare forma societaria per le ultime due mi sembra utopia”.

COME INCENTIVARE LE IPO

Alcune iniziative incentivanti le stanno realizzando Borsa con Consob, come PiùBorsa ed Elite, per semplificare i processi e accompagnare quotabili sulla piazza. Ma il vero problema è un altro. Non le regole stringenti e la burocrazia che non hanno impedito altrove, come in Regno Unito, 2500 quotate o negli Usa, dove la normativa è severa e onerosa la quotazione di 2800 società.

IMPRENDITORI ALLERGICI

La resistenza degli imprenditori a sottoporsi a regole di governance, trasparenza e alla necessità di spossessarsi connessa con l’Ipo è una delle spiegazioni, probabilmente la più importante.
La seconda è la composizione dell’indice: mancano le big corporation su cui orientano gli investitori istituzionali. E non basta. Manca anche in realtà una domanda. L’investitore italiano è avverso al rischio: siamo i Bot-people, e le azioni in sé sono considerate un approdo speculativo. E non esistono i fondi pensione, che hanno orizzonti temporali lunghissimi e apportano flussi costanti di capitale, fungendo da stabilizzatori dei mercati.

COSA PENSANO I GESTORI

“A cinque anni – afferma Stefano Reali, gestore di Pharus Sicav – l’Italia ha reso il 20% contro il 120% dell’Europa. Nel 2013, grazie soprattutto al recupero delle banche dai minimi, il differenziale si è appiattito. E questo trend potrà durare fino a metà 2014”. Complice anche il ritorno di interesse “verso i Paesi periferici dell’area euro a livello internazionale – spiega Marco Bonifacio, responsabile dell’ufficio studi di Zenit Sgr – qualche investitore straniero potrebbe essere sospinto verso l’Italia”. Anche se il focus nel 2013 è stato soprattutto sulle piccole e medie capitalizzazioni, lo Star ma anche l’Aim, titoli caratterizzati da volumi scarsi e tipicamente appannaggio di investitori domestici. In fondo la salvezza potrebbe arrivare proprio da qui. Dalle piccole, piccolissime imprese su cui l’intero castello dell’economia italiano è stato costruito.

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